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Pippi De Dominicis
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L'Amore de na Vergine Spudhiculature Cenni biografici

Spudhiculature

L'opuscoletto comprendeva un gruppo di componimenti poetici, vari per argomento, per genere, per fattura e per metrica. La selezione e la raccolta delle poesie fu operata dallo stesso autore e pubblicata nel 1903.



La criazzione de l'omu

Esistendo da sempre e vivendo in cielo sempre solo, il Padreterno s'era annoiato e, come per darsi un diversivo, pensò bene di creare il mondo. Impiegò cinque giorni per fare il sole, la terra, le piante, gli animali, il mare. Dando uno sguardo d'insieme a quanto creato, si compiacque del proprio lavoro sino a quel momento compiuto:

È bellu! - disse - M'aggiu mmurtalatu!

Non aveva ultimato, però, il suo programma universale, infatti mancava l'operazione più impegnativa: la creazione dell'Uomo.

A questo punto il poeta s'intromette ed esprime una personale considerazione circa il progetto divino, rivelando che egli, se si fosse trovato presente, avrebbe consigliato a Dio Onnipotente di non procedere alla creazione dell'Uomo, il quale in futuro gli avrebbe procurato soltanto dispiaceri. Purtroppo, noi uomini esistiamo, viviamo su questa terra e dobbiamo restarci.

Il sesto giorno, dunque, il Padreterno preparò con terra e acqua una gran massa di malta e si dispose al lavoro di buona lena. Si rimboccò le maniche e con grande abilità plasmò di fango un uomo, riuscendo a dargli una figura simpatica, ben nutrita, slanciata, regolare; gli soffiò sul viso infondendogli l'anima, lo chiamò Rotschild (petroliere e banchiere americano famoso nel mondo) e lo mise da parte. Con altro fango e con la medesima maestrìa formò il principe Torlonia di Roma (grande proprietario terriero noto in tutta Italia), poi il senatore Tamborini di Maglie (latifondista milionario salentino) e poi il senatore Martini (altro personaggio leccese ammirato e invidiato per la ricchezza).

Così a lungo impegnato a dare corpo ai singoli personaggi ripetendone le forme e le caratteristiche, il Creatore si stancò, e come si stancò! E allora si mise a raccogliere manate di poltiglia, a lanciarla in aria, mentre, quasi divagandosi,

«Aloh! Facimu uèmmeni!» - retaa.

Con questo sistema sbrigativo, in breve tempo disseminò all'intorno centinaia di persone. Qualcuno cadeva di fianco e si alzava sciancato, qualcun altro rotolava, urtava contro un masso e rimaneva gobbo, altri venivano lanciati tra gli sterpi, cadevano a testa in giù e rimanevano accecati.

Muralità: li prima ca mpastau
suntu li ricchi, li privilegiati;
quidhi ca straccu all'aria semmenau
simu nui li pueriedhi desperati…
E ci intru a petre e scrasçe sçiu ccadìu,
quidhi li desegnati su' de Diu!


La criazzione de lu cerviedhu

Il Padreterno, quand'ebbe finito di creare gli uomini, si avviò verso casa. Strada facendo rimuginava il sospetto che la sua creatura non era risultata proprio come egli avrebbe desiderato:

mancaa na cosa, e bera naturale
ca a destinguere l'ìa de l'animale.

Entrato in casa, sebbene stanco, in un capace bacino si mise a preparare una materia speciale, un miscuglio fatto di cenere, zolfo e sego, cui aggiunse chiare d'uovo, il tutto impastato con l'acqua. Da questa miscela risultò il cervello umano.

Il Signore Dio si caricò in spalla il grosso recipiente colmo di materia grigia e tornò al luogo dove aveva manipolato i corpi degli uomini.

- Nunni! uei nunni, eniti! a ddu sta' sciati?
Ca la sapienzia mia nu bu ha spicciati!

E ad uno ad uno ficcava nel cranio ancora molliccio una manata di cervella. Allorché si accorse che la materia poteva non bastare per tutti, vi aggiunse altro semplice terriccio; poi fu indotto a rimpicciolire le porzioni; poi, purtroppo, l'intruglio si esaurì e per alcuni mancò del tutto.

Il Padreterno, stanco e sudato, non ebbe più voglia di preparare altri cervelli per dotarne gli uomini rimasti privi e smise l'operazione.

Dunque: li prima fora quidhe menti
rosse, le megghiu. Doppu enemmu nui,
de menza manu. Ci nun ibbe nienti,
ca de dha ndosa nu nci nd'era cchiùi,
fora li scemi. E dengrazziamu Diu
ca quandu rriammu nui nu sse furniu!


Nfacce allu Cumentu de S. Pascali

Già nel giugno del 1901 i frati avevano abbandonato il Convento di S. Pasquale, in Lecce, e si erano trasferiti nel nuovo Convento detto di Fulgenzio. Tuttavia il poeta ancora adesso, con l'immaginazione, dentro S. Pascali vede frati isolati pregare e meditare nelle celle, frati a due a due camminare assorti per i corridoi, frati impegnati ad operare nei diversi ambienti, ciascuno intimamente compreso del proprio passato e conscio del proprio presente: quello entrato in convento per vocazione, quell'altro in seguito a delusione d'amore; frati magri penitenti e frati grassi allegroni; frati ingobbiti sui libri e frati disfatti dalle fatiche.

Cumentu de li moneci, a ba ssacci
ca quandu è ccrai nci tràsenu li pacci!

Chi mai poteva supporre che il fabbricato di S. Pasquale sarebbe stato adibito a manicomio? Ora nelle celle: idee strambe, pensieri bizzarri, speranze evanescenti, desideri folli, sogni fantastici. Alcuni infermi pensano di essere forti come guerrieri ed altri macilenti e deboli si credono agili come atleti; quella vecchia sfatta si atteggia a florida giovanetta; ecco, passa un imperatore con la corona in testa; là in fondo un tale tira pugni e mena sberle a un avversario che non c'è; un altro si ritiene uno scienziato, è sempre concentrato sui libri, purtroppo non sa leggere; quel superbioso addirittura annunzia di essere il Padreterno! Poveri dementi, naufraghi perduti nel mare della vita, nemmeno la scienza psichiatrica può lanciarvi l'àncora della guarigione.

Ahi pôri pacci, pôri naecanti
perduti de la vita all'àutu mare!
Ahi pôri pacci ca iti de nanti
persa la carta de lu naecare;
la scenzia ca bu uarda tutti quanti
nu bu la sape l'àncura menare…
Fommu pacci nui puru, Linda mia,
senza nni canuscimu la paccia?


Primavera

Io sento che stai per giungere, o Primavera tanto attesa, me ne rendo conto dal mandorlo fiorito, dalla campagna inverdita, dalle piante ingemmate.

L'acedhu na canzune se sta' mpara,
cu tte la canta nu sta' bite l'ura;

Però, Primavera, tu che largisci la vita alla provvida natura, tu che muti il canto agli uccelli innamorati, tu che dai ornamento alla campagna, ascolti anche il pianto dei poverelli indigenti? Tu che doni un verde manto agli alberi, procuri anche una veste agli ignudi, che son tanti?

A mpiettu all'animali dài l'amore
fenca lu erme se sente sciudhecare;
e intantu nu tte dduni de ci more
pe llu superchiu mutu desçiunare!


Lu carrofalu žžanguenatu

C'era una volta una giovane straordinariamente bella e altera. Molti s'invaghivano di lei, persino Duchi e Principi le si avvicinavano per chiedere la sua mano. Ma ad ognuno ella rispondeva che "il suo cuore non era per lui".

Un giorno la fanciulla raccoglieva garofani bianchi sul terrazzino, quando passò il giovane Re in persona, il quale le disse: «O bianca fata, io per te rinunzierei al regno. Offrimi un fiore e degnami almeno di un tuo sguardo».

Ella staccò un pollone dal rametto, lo lanciò rispettosamente

e nni disse - Maestà, ieu te ccuntentu,
ma nu ccercare cchiùi: passa e ccamina!

Il Re piantò il virgulto in un vaso d'oro e per le sue cure premurose lo stelo attecchì e diventò una pianta rigogliosa, che alla buona stagione produsse bellissimi garofani bianchi, sui quali il giovane continuamente si struggeva d'amore, d'attesa e di speranza.

Quando si diffuse la notizia che la bella fanciulla era scappata con il suo segreto amante, il Re, folle di gelosia, si sporse sulla pianta infiorata di garofani e si trafisse il cuore con lo stiletto.

Le stizze de lu sangu ca cadèra
de quidhu pôru core nnamuratu,
lu carròfalu biancu nde tengèra
e rrumase de tandu žžanguenatu!


Le rose de campusantu

Una povera donna trascorreva gli anni di matrimonio affamata di cibo ma sazia di botte. Come unico suo bene aveva il figlioletto, grazioso, il viso roseo, gli occhi dolci. Un giorno, inaspettatamente, passò la morte e lo ghermì, lasciando la madre nei digiuni, nelle percosse, nel pianto…

Il 2 novembre, commemorandosi i defunti, nel cimitero tutti i sepolcri, sia dei ricchi e sia dei poveri, erano parati con candele, con corone e con rose di camposanto (crisantemi),

sulu a nnu surcu e fore manu
li fiuri quidhu giurnu nci mancânu.

Difatti, più in là una madre era inginocchiata sull'unico posto spoglio del solco cimiteriale, gli occhi rivolti a terra, e piangeva sconsolatamente lamentandosi e scusandosi che non aveva potuto deporre neanche un crisantemo su quella tomba amata. Mentre abbondanti lacrime bagnavano la terra, quella madre, battendosi la fronte, supplicava:

- Se su' mmancati
li fiuri, fanne tie nn'àscanu, o Diu,
subbra alla tomba de lu figghiu miu!

Come la pioggia benefica, irrorando l'arido terreno favorisce il germogliare delle piante e lo sbocciare dei fiori,

cussine de dha mamma cu llu chiantu
'ssera le rose de lu campusantu.


La notte de Santu Martinu

Linda, siedi accanto a me e ascolta ciò che dico, perché desidero confidarti una mia intima convinzione. Intanto, Linda, non pensare ai guai della vita e versa un altro bicchiere di vino.

Premetto che io a lungo studiai con il desiderio si scoprire e apprendere che cos'è la verità e, tuttavia,

na cosa sula intantu me mparai:
ca lu mundu ete tuttu vanità.

Nei libri ho imparato che l'uomo quanto più ne sa tanto più ne sballa. Da dove ha origine il moscerino? come il bruco si trasforma in farfalla? quale mente può contare le stelle del firmamento? quale scienziato ha compreso come si forma il pensiero nel cervello? come è cominciata la vita umana?

Bah! comunque sia, Linda, bevi, bevi ancora in onore di S. Martino.

Io, cercando l'amore, mi sono vista sfiorire la giovinezza. Ora mi domando che cosa sia l'amore e mi rispondo che pure l'amore è vanità. L'amore non è come l'avevo immaginato da giovinetto: un sentimento tanto ardente da struggere l'anima. O Linda, quando mi accarezzi, quando mi abbracci, quando mi baci, vorrei sentirmi morire e trasportare in cielo unitamente alla tua anima. In realtà, provo semplicemente il sapore dei tuoi baci.

E quando la mente ole mbrazza lu celu,
de pùrvere a mmanu se troa na francata;
e quantu cchiù bàutu ole spicca lu uelu,
cchiù mmutu alla terra se sente nferrata!

Giorno dopo giorno vediamo svanire dal cuore le illusioni, che, come i petali della rosa, a poco a poco scolorano, perdono il profumo, cadono.

Sempre più ti senti rodere l'animo allorché brami una cosa e non puoi averla, e allora spasimi e spremi il cervello al fine di trovare un'altra felicità.

Intanto l'esperienza della vita mi consiglia di cercare il piacere nella bottiglia. E dunque, Linda, suvvia, riempi il bicchiere e poi dimmi se ciò non è la verità.

Quando ti salgono quei fumi balsamici nella testa, un soldo ti pare un milione; ti sembra di essere un principe, un papa, un re; credi di essere corteggiato da tutte le donne; dalla musica ti senti trasportare in paradiso tra gli angeli…

e avanti, bii, manìsçiate,
inchi, bedhazza mia,
e doppu poi respùndime
se nun è peccussì.



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