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Cavallino attraverso i secoli
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Dalle origini
alla caduta dell'impero romano
Dall'invasione dei barbari
all'anno mille
Dalla conquista normanna
alla venuta dei Castromediano

PARTE PRIMA: LA BARONIA

Capitolo secondo

DALL'INVASIONE DEI BARBARI ALL'ANNO MILLE



1- Arrivano i barbari

Dopo il lungo periodo dell’età romana, verso la metà del sec. V dopo Cristo, sopravvenne la decadenza, dolorosa, tremenda, a causa delle successive invasioni barbariche: Goti, Saraceni, Slavi, Longobardi...

Il nostro Salento diventò campo di battaglia tra eserciti invasori che si battevano per conquistare il territorio salentino, ed eserciti bizantini dell’Imperatore Giustiniano che lottavano per impadronirsi delle terre appartenute a Roma.

La guerra gotico-bizantina durò diciotto anni, dal 535 al 553. I sanguinari soldati di Totila, re dei Goti, si resero colpevoli di ruberie, violenze di ogni genere, distruzioni e massacri e poi occuparono tutte le terre del Salento, eccetto Otranto, che si difese con accanimento e coraggio. Otranto acquistò tanto merito, che da allora la penisola salentina cominciò ad essere chiamata con il nome di Terra d’Otranto.

E’ certo che i territori di Lecce e di Cavallino furono presi da Totila in persona nel 542; cinque anni dopo furono riconquistati dai Bizantini; nel 549 vennero nuovamente sottomessi dai Goti, che li assoggettarono ad un intenso sfruttamento.

Andati via i barbari, gli abitanti di Cavallino si curarono anzitutto le ferite inferte alla persona e al paesetto e poi tornarono alle loro faticose attività nei campi sconvolti dalle fanterie e dalle cavallerie straniere.



2- Non più liberi ma servi

Ed ecco ancora presentarsi ai confini del Salento un altro popolo barbaro, i Longobardi. I Bizantini tentarono di respingerli e sulle nostre terre dal 662 al 667 si rinnovarono gli scontri, le stragi e le ruberie. Alla fine le città costiere Taranto, Brindisi, Otranto e Gallipoli rimasero in mano dei Bizantini, invece le zone interne caddero in potere degli invasori che vi rimasero da padroni per oltre cent‘anni.

Lecce e Cavallino furono, dunque, occupate dai barbari e soffrirono decenni di dolorosa decadenza morale ed economica. I Longobardi si appropriarono delle terre dei contadini e se le spartirono in feudi, imponendo la feroce legge feudale che costringe l’uomo a farsi servo dell’uomo per paura e per miseria.

Allora i Cavallinesi da liberi cittadini furono ridotti a servi della gleba. I contadini erano costretti a lavorare i campi dall’alba al tramonto, tutti i giorni, persino la domenica, e, ultimati i raccolti, dovevano cedere ai padroni dominatori il prodotto del proprio lavoro, trattenendo il minimo indispensabile per il sostentamento.



3- Legati alla terra come le bestie

Durante la dominazione longobarda Rudiae aveva conservato la sua grande importanza e Lupiae era un centro abitato da non più di 7-8 mila persone.

Cavallino era un borgo e contava pochi residenti: qualche artigiano, i fattori, i sorveglianti, qualche raro fortunato contadino semilibero; i più, i servi e i pastori, che non godevano di alcun diritto, neppure umano, erano costretti a vivere nei campi padronali, che non potevano in alcun modo abbandonare, legati alla terra, e abitavano in umili capanne e potevano essere venduti ad un altro padrone insieme al fondo, alla casupola, alla stalla insieme alle bestie.

Quando ai Longobardi padroni si sostituirono gradualmente i funzionari bizantini, greci mandati dall’imperatore di Bisanzio (Costantinopoli) a governare e ad amministrare le nostre province, la condizione della gente dei casali migliorò dal punto di vista politico e sociale; i Bizantini si comportavano non da padroni conquistatori, ma piuttosto da funzionari rappresentanti dell’imperatore, responsabili del loro operato e perciò sindacabili; più che altro, essi badavano a raccogliere tributi e imposte sempre più abbondanti da inviare a Bisanzio, sottoponendo la popolazione ad un intollerabile sfruttamento fiscale, ma nei confronti dei sudditi nutrivano e usavano maggiore considerazione per la loro dignità umana.



4- Iconoclastia: distruzione di sacre immagini

Nell’anno 725 l’imperatore di Bisanzio Leone III, il quale aveva riconquistato le provincie pugliesi, emanò un editto con cui ordinava la distruzione delle immagini sacre. La legge aveva vigore su tutto il territorio dell’impero: e i soldati imperiali eseguivano con furore e accanimento gli ordini e uccidevano senza pietà i contravventori, coloro cioè che venivano sorpresi con qualche medaglina addosso o, peggio ancora, con qualche quadro di santo in casa.

Fu a causa di queste persecuzioni, durate oltre cent’anni, che i buoni fedeli, non volendo bruciare le sacre immagini e non volendo rischiare la vita, nascondevano, sotterrandole, le statue, le figure di Gesù Cristo, della Vergine Maria e dei Santi.

Certamente in quelle pericolose circostanze un Cavallinese, per paura di essere punito, nascose nel campicello denominato la Rutta la lastra di pietra su cui era dipinto il volto della Madonna con Gesù Bambino.

Quella immagine alcuni secoli dopo fu casualmente rinvenuta da un contadino, fu venerata dagli abitanti di Cavallino con il nome di “Madonna del Monte” ed in suo onore fu eretta sul luogo del ritrovamento una cappelletta, col tempo andata in rovina. Intorno alla metà del sec. XVII venne innalzata un’altra sacra edicola, più vicina alla via per Lecce, in modo che la Madonna, ormai diventata la protettrice del paese, potesse essere veduta e salutata dai devoti passanti. Ora la chiesetta, più volte restaurata, è racchiusa entro il recinto del cimitero.



5- Benedettini e Basiliani

Le già difficili situazioni locali si complicavano a causa delle contese religiose tra monaci Benedettini e monaci Basiliani: gli uni operavano per affermare l’autorità e la dottrina della Chiesa cristiana di Roma, gli altri per diffondere l’autorità e la dottrina della Chiesa cristiana di Bisanzio. Comunque, i fedeli traevano intimo conforto nel sentire l’insegnamento degli uni e degli altri, i quali invitavano alla fratellanza ed esaltavano la dignità umana.

Probabilmente anche a Cavallino i monaci Basiliani esercitarono il loro ministero. Sigismondo Castromediano, nella sua opera “Caballino” (L. Capone Editore), dice che il convento dei frati domenicani “forse fu eretto dove era altro convento dei Basiliani”. Effettivamente la chiesa del convento è costruita su una preesistente cappella seminterrata, che fa pensare ad una cripta basiliana. Nei pressi di essa il Castromediano rinvenne una stele (poi andata smarrita) su cui era incisa una iscrizione in lingua bizantina. Un’altra iscrizione bizantina si legge tuttora su una pietra incastrata sulla porta murata del lato sinistro della cappella sita nel cimitero.



6- I Saraceni predatori

La decadenza della città di Lecce e del piccolo borgo di Cavallino si accentuò quando i Saraceni, predoni arabi dediti al brigantaggio, dopo aver occupato Bari nell’840 e Taranto nell’842, cominciarono a compiere feroci scorrerie. Durante una di queste i quartieri meno fortificati e difesi di Lecce furono distrutti.

Gli abitanti di Cavallino vennero derubati di tutte le loro cose di un qualche valore. I crudeli pirati saraceni arrivavano d’improvviso quando i prodotti della terra erano maturi, costringevano i contadini a raccoglierli e a consegnarli a loro, saccheggiavano le abitazioni e le chiese, rapivano le belle fanciulle, che poi vendevano come schiave sui mercati d’oriente, decapitavano chiunque tentasse di resistere. Quando lasciavano il paese, non rimaneva un filo di erba!

Purtroppo, senza un autentico e valido potere politico e militare nazionale le popolazioni salentine rimanevano esposte agli assalti dei predatori che in permanenza conducevano azioni da corsa sulle coste.



7- Cavallino intorno al Mille

Nell’anno 1000 si diffuse tra le genti cristiane la credenza che il 31 dicembre sarebbe avvenuta la fine del mondo. Perciò rallentarono o addirittura cessarono le attività lavorative. A quale scopo coltivare i campi e piantare alberi se tutti dovevano morire? Perché mettere al mondo figli? Man mano che si avvicinava la data fatale, l’ansia, la trepidazione, la paura invadevano il cuore degli uomini.

Narrano le cronache del tempo che il 31 dicembre molti, non sopportando la tragica attesa della catastrofe universale, per disperazione preferirono suicidarsi. Allo scoccare della mezzanotte.., nulla accadde! Il mondo continuò ad esistere come prima.

Allora tutti, uomini e donne, furono invasi da nuovo ardore e tornarono con rinnovata lena alle loro occupazioni giornaliere. Dovunque, nelle città, nei borghi, nei campi un operoso fervore di vita; dovunque un miglioramento delle condizioni economiche e umane: una rinascita, insomma, che si faceva notare specialmente nei grandi centri abitati.

Nel villaggio di Cavallino, invece, la vita sociale era embrionale. I contadini, i pastori, qualche artigiano per tutte le ore di luce erano impegnati nel lavoro, duro, insistente, sorvegliato. Quando la sera rientravano nella propria capanna avevano un solo desiderio: calmare i morsi della fame con fave o verdure condite con poco olio e con pochissimo sale e andare subito a stendersi sul giaciglio per riposare le ossa rotte dalla fatica. Solo la domenica essi si intrattenevano in piazza con gli amici, vestiti a festa, con i calzari ai piedi, con le brache lavate e stirate, con la tunica di panno ruvido tessuto al telaio di casa dalla moglie operosa.

Abitavano in umili casette: una stanza, una cucina, una stalla, addossate le une alle altre come per sorreggersi; i muri di pietre informi cementate con impasto di terra e calce, i tetti di cannicci con le falde ricoperte di tegoli semicilindrici.



8- Peggiorano le condizioni economiche

Gli esattori bizantini si facevano sempre più invadenti, esosi, intrattabili. Poiché la moneta circolante era scarsa, accettavano il pagamento dei tributi in natura.

I terreni del borgo di Cavallino generalmente non erano fertili; in special modo i campi che si estendevano a nord e ad ovest dell’abitato erano, come lo sono oggi, interrotti e tormentati da larghe chiazze di roccia affiorante, sicché persino l’aratura risultava difficoltosa.

La produzione agricola era men che mediocre per tre motivi principali: le sfavorevoli condizioni climatiche, la mancanza di concimazione, i metodi arretrati di coltivazione. Erano scarse le piogge e frequenti le grandinate, e i calori estivi erano divenuti eccessivi ed umidi. Il letame era insufficiente perché, essendo poco praticato l’allevamento del bestiame, lo stallatico era scarso. L’aratro allora usato, poi, aveva ancora il piolo di legno indurito alla fiamma, il quale a stento graffiava il terreno affondando solo pochi centimetri.

La resa della produzione, insomma, si aggirava intorno al quattro per cento, e dei raccolti solo una piccola parte restava al contadino, la parte più abbondante veniva prelevata dai collettori imperiali in cambio dei tributi.

Oltre che sui prodotti dell’agricoltura e della pastorizia i tributi gravavano pure su quelli dell’artigianato e sui servizi. Ogni manufatto messo in vendita era sottoposto a tassazione. I mercanti pagavano il “ius plateaticum”, una tassa dovuta per l’occupazione di suolo pubblico; prima di andare a far legna nella macchia, bisognava passare dal daziere per pagare il “ius forestae”; il “ius victurae” gravava sui padroni dei carri e per di più i carrettieri pagavano un altro pedaggio allorché si trovavano a transitare per le vie del territorio di Lecce; e poi i pastori erano tenuti a versare un obolo estivo per la polvere che il gregge sollevava passando per le vie del borgo e per le stradine di campagna.

Il pescivendolo cavallinese che si recava a San Cataldo per rifornirsi di pesce, passando per Lecce, doveva lasciare ai dazieri un rotolo di pesce; se erano sarde pagava 50 sarde a salma; però se le spaselle erano portate a spalla (si aveva un po’ di considerazione!) si richiedeva soltanto mezzo rotolo di pesce per la famiglia del gabelliere.



9- L’avidità dei dazieri

Molteplici erano allora le funzioni dei dazieri. L’impiego era molto ambito, perché poteva rappresentare una fonte di ricchezza; tanto è vero che il governatore in persona dovette intervenire per stroncare l’avidità dei dazieri leccesi. Egli comandò al catapano che, essendo venuto a sapere per certo che i dazieri si comportavano indebitamente verso i contribuenti, per suo ordine fossero sottoposti a severa inchiesta. Naturalmente le superiori disposizioni producevano il loro effetto per breve tempo: infatti, poco dopo – è da supporre – i dazieri desiderosi di arricchirsi approfittavano della lontananza del potere centrale e tornavano a compiere i soliti abusi e soperchierie a danno dei poveri contribuenti, i quali del resto non avevano alcuno strumento amministrativo o giuridico per fare valere le loro ragioni e i loro diritti.

Per conservare la salubrità dell’aria i regolamenti d’igiene vietavano di gettare immondizie od oggetti contagiosi per le strade, ma si faceva obbligo di portarli nella fossa comune autorizzata, la quale a sua volta doveva essere vuotata e ripulita una volta al mese d’estate, ed ogni tre mesi d’inverno.

Evidentemente queste disposizioni erano in vigore ma non venivano rispettate se molto spesso le autorità tornavano ad emanare ordinanze che sollecitavano i vigilanti a fare osservare i regolamenti disattesi.

Nessun cristiano nei giorni di festa celebrati dalla chiesa poteva lavorare, neppure al chiuso nella propria bottega; nessuno poteva fare rumori molesti né trasportare merci per le vie del paese a meno che non fosse munito di uno speciale permesso del parroco. A comminare le pene pecuniarie ai contravventori erano preposti loro, i dazieri.



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