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Cavallino attraverso i secoli | ||
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Dall'invasione dei barbari all'anno mille |
PARTE PRIMA: LA BARONIA
Capitolo primo
DALLE ORIGINI ALLA CADUTA DELL'IMPERO ROMANO
1- Il perimetro della città preistorica
Gli scavi e i resti archeologici di Cavallino testimoniano che l’antichissimo abitato, di cui purtroppo son rimasti pochi ruderi, si estendeva su una superficie di circa 76 ettari, a nord dell’odierno abitato.
Il perimetro delle mura, partendo da porta S. Giorgio, seguiva il percorso dell’attuale via A. Diaz e giungeva su lu Piru, e precisamente nel fondo Serra, nelle adiacenze della vecchia stradetta per Lizzanello. Da qui, puntando prima a nord (in direzione dell’abitato di Merine) e poi volgendo verso ovest (verso Lecce), il perimetro dell’antica città, attraverso i poderi Margiotte, Sediolo e Giancastello, tra i fondi Culummi e Chiesura rande, giungeva piegando a sud nei poderi Scarani e Aiera Ecchia e quindi sulla via provinciale Cavallino-Lecce, non lontano dall’attuale cimitero.
Poi continuava seguendo all’incirca il tracciato della via Culummi, si prolungava fino al fondo Rine (presso via S. Cesario), seguiva la via delle vecchie mura (oggi via Mario Corallo) per ricongiungersi con la Porta San Giorgio dopo un percorso, grosso modo rettangolare, lungo non meno di tre chilometri.
2- Solo pochi resti
Dell’antico paese ora non rimangono che lievi vestigia: qualche tratto delle basi delle mura ciclopiche, lunghi tratti del largo fossato ormai interrato, i basamenti di alcune abitazioni, qualche cisterna di forma conica (probabilmente fosse-silos per la conservazione di cereali) e, sparse per ogni dove sia all’interno che all’esterno dell’abitato, parecchie tombe a terra, scavate nella pietra leccese; notevole tra esse un ipogeo sito nel fondo Sediolo; dappertutto, infine, una grande quantità di cocci di vasi e di tegole di terracotta; più abbondanti si rinvengono nei fondi Fica, Cupa e Sentina.
Fino a pochi anni fa nella vasta zona archeologica si notavano, almeno uno in ogni podere, numerosi truddri o pagghiare, capanne conico-tronche di pietre informi; ora se ne vedono pochi e quasi dirupati. Parecchie erano pure le specchie (grossi cumuli di sassi); ne è rimasta una sola alquanto grande, le altre sono state portate via per essere usate come materiale di riempimento per i vespai delle moderne abitazioni. Un grande cumulo di pietre ammassate a semicerchio è rimasto intoccato nel podere Sentina, a circa 200 metri sulla sinistra, uscendo dal paese, di via Crocifisso.
3- Chi l’ha fondata e quando?
Quale antico popolo fondò detta città? A questa domanda nessuno può rispondere con esattezza. Gli storici, i cronisti, gli scrittori antichi nulla ci hanno tramandato in proposito e nessuna antica iscrizione su pietra o su tegola è stata rinvenuta che potesse orientare i curiosi e appassionati cultori delle patrie vicende. Durante gli scavi effettuati fino ad oggi sono stati rinvenuti alcuni frammenti di tegole recanti incise solamente poche lettere, che sono da ascrivere alla lingua messapica, ma che non permettono di ricostruire alcuna parola intera e tanto meno di dedurne un qualche significato.
Gli archeologi, comunque, ritengono con certezza che la città fu fondata dai Messapi.
Le genti messapiche giunsero nel nostro territorio salentino verso il 1000 a. C., secondo alcuni studiosi scendendo lungo la costa adriatica della penisola italiana, secondo altri venendo per mare dall’Asia minore.
E’ certo, tuttavia, che la civiltà messapica si sviluppò per circa 700 anni nel nostro Salento e si spense nel III sec. a. C., allorquando fu assorbita dalla più evoluta, solida e ricca civiltà romana.
Dunque, è possibile che la nostra antica città sia stata fondata agli inizi del 1° millennio avanti Cristo? Si, è molto probabile.
I ricercatori, che conducono gli scavi nella zona archeologica, hanno esaminato la stratificazione del terreno nel settore B dell’abitato ed hanno individuato tre strati sovrapposti; i reperti dello strato più basso risalgono alla prima età del ferro (X-IX sec. avanti Cristo), quelli del mediano appartengono ai secoli VIII-VII, gli oggetti dello strato superiore rimontano al VI sec. a. C.. Inoltre possiamo pensare che l’origine della città risalga ad un’epoca tanto remota se osserviamo l’arte edilizia dei costruttori; infatti, i massi ciclopici della muraglia sono squadrati grossolanamente e sistemati contigui senza malta, e i basamenti delle abitazioni poggiano direttamente sul terreno friabile, mentre la dura roccia compatta si trova ad appena un palmo più sotto: indizi questi di un’arte rozza e ancora priva di esperienza costruttiva, anche se, riferita ad un’epoca tanto remota, è da considerarsi abbastanza progredita.
Le vestigia, comunque, lungamente lasciate esposte alle intemperie e alla mercé dei contadini, sono così esili che non offrono segni tali da condurre ad una interpretazione certa e definitiva.
4- Ma non è Sibari
Ed ancora, la misteriosa città che nome aveva?
Neppure a questa domanda si può rispondere con certezza
Eppure, osservando la lunghezza del perimetro cittadino, la vastità dell’area abitativa, lo spessore della cinta muraria, la profondità e la larghezza del fossato, l’impianto di canalizzazione e di drenaggio, possiamo ritenere che la città fosse di notevole importanza. Nondimeno il suo nome è rimasto sconosciuto; svanito nel buio del tempo.
Alcuni cultori di storia patria hanno tentato, purtroppo invano, di dare un nome all’abitato, o meglio di scoprire il nome della città distrutta; lo stesso Sigismondo Castromediano, figlio della terra di Cavallino, si sforzò di dimostrare che il paese ridotto in rovina era da identificarsi con l’illustre città di SYBARIS, di cui parlano il poeta latino Publio Ovidio Nasone nelle sue “Metamorfosi” (XV, 50-52) e il geografo greco Pausania nel suo “Viaggio per la Grecia” (VI, 19, 9).
Ma le prove presentate e addotte dal Castromediano non sono chiare né certe e inconfutabili. Le sue affermazioni derivano da un convincimento promosso dall’affetto per il paese natio piuttosto che da riprove e deduzioni realisticamente logiche.
Anche Giuseppe Nenci, rifacendosi agli studi dell’Ullrich e del Paìs, esclude assolutamente che la nota Sybaris possa essere identificata con la nostra città madre.
C’è da temere che la città probabilmente rimarrà per sempre senza nome.
5- I Tarentini razziatori
E quando e da chi fu distrutta?
Sappiamo che per molti decenni Tarentum, la più ricca e potente città della Magna Grecia, tentava di imporre la sua autorità e il suo dominio sui Messapi-Salentini. I Tarentini erano abili navigatori e si dedicavano prevalentemente ai traffici marittimi; avevano però bisogno di braccianti da destinare ai lavori agricoli, e di giovani robusti da adibire come rematori sulle loro flottiglie. Questa necessità li spingeva a procurarsi la manodopera mediante scorrerie armate nel contiguo territorio abitato dai messapi-salentini agricoltori, i quali furono costretti a provvedere alla propria difesa e sicurezza cingendo le loro città di robuste muraglie e profondi fossati.
Abbiamo notizie storiche che ben tre guerre furono combattute tra Tarentini e Messapi: i primi riportarono una grande vittoria verso il 500 a. C. i secondi risultarono vincitori nel 471; infine nel 460 a. C. i Tarentini sconfissero definitivamente i Messapi.
Da quel momento le popolazioni messapico-salentine cominciarono a subire insistentemente l’influenza non solo politica ma anche culturale dei Greci, assorbendone usi, lingua e religione.
È da pensare, dunque, che la nostra misteriosa città sia stata distrutta dai Tarentini? Questa sembra la supposizione più logica e fondata.
6- La conquista romana
Si tenga ora presente che due secoli dopo, e precisamente nell’anno 272 a. C. le legioni romane sconfissero e sottomisero Taranto e, finalmente, nel 266 a. C. i consoli Fabio e Pera vinsero i Messapi e completarono l’occupazione delle terre salentine.
Gli scrittori latini descrivono con abbondanza di particolari queste imprese vittoriose delle legioni di Roma, ma della "importante città” situata a soli sette chilometri da Rudiae e a cinque da Lupiae, nessuna menzione, nessuna citazione, nessuna notizia.
E’ facile e logico dedurre che se gli storici romani non ne parlano (nemmeno il poeta Quinto Ennio, nato il 239 a. C. e vissuto a lungo a Rudiae e morto a Roma il 169 a. C.), significa che l’antica città avesse cessato di esistere già da molto tempo, molto prima dell’arrivo dei Romani conquistatori, distrutta probabilmente a causa di una delle tante feroci guerre combattute nei secoli precedenti nelle nostre contrade.
Anche il Nenci conferma che la città oggetto di attenta esplorazione archeologica aveva cessato di esistere prima della conquista romana; egli è convinto anche che il sito non fu abbandonato a causa di eventi bellici, ma avanza l’ipotesi che gli abitanti si siano allontanati, trasferendosi a Lecce o a Rudiae, in seguito all’inaridirsi delle fonti idriche.
Questa ipotesi (in verità prospettata con molta vaghezza) non è proprio sostenibile in quanto che non è verosimile che sfavorevoli condizioni ambientali abbiano colpito così gravemente la nostra contrada e non anche Lecce e Rudiae situate a così piccola distanza. Se pure si fosse verificato l'inaridimento delle fonti locali, per la comunità cittadina sarebbe stato più logico e agevole approvvigionarsi di acqua trasportandola dai luoghi vicini, piuttosto che abbandonare case, campi e città e trasferirsi in massa a Lecce.
7- L’origine della nuova Cavallino
È logico pensare che, abbandonata la città distrutta, gli abitanti scampati alla morte, rimasti tuttora in possesso dei campi e dei pascoli, non si allontanarono dal sito, ma in parte si rifugiarono nella vicina Lecce e nei luoghi circostanti, in parte si diedero a costruire le nuove dimore a ridosso del primitivo paese (su lu Calò), utilizzando i materiali delle case e delle mura crollate e rovinate: prima poche capanne di pastori e contadini; poi si aggiunsero le umili abitazioni dei loro figli; con il passare del tempo e con il succedersi delle generazioni quel gruppo di case diventò un piccolo borgo, il nucleo primitivo della futura Cavallino, cioè dell’attuale centro abitato.
Durante la seconda guerra punica (218-201 a. C.) molte città pugliesi rimasero fedeli a Roma, altre invece, desiderose di riprendersi l’autonomia e l’indipendenza, si unirono ad Annibale, valoroso generale cartaginese, fornendogli viveri, denari e soldati.
Finito il conflitto con la vittoria dei Romani, questi compensarono le città fedeli come Brindisi e Lecce, punirono severamente le città infedeli come Taranto.
8- L’influenza della romanità
Nel corso degli ultimi due secoli della Repubblica e durante i due successivi secoli dell’Impero Romano, grande importanza assunsero Brindisi per il porto e Lecce per l’entroterra, entrambe le città diventate basi di partenza e di arrivo per tutte le attività e le operazioni logistiche e strategiche e per i frequentissimi collegamenti tra Roma e i Paesi dell’Asia Minore.
Nel territorio tra Brindisi e Lecce era un frenetico fervore di vita e di attività: legioni che si preparavano per partire alla conquista del vicino Oriente e legioni che tornavano vittoriose e cariche di bottino.
E i Brindisini e i Leccesi e, perché no?, i Cavallinesi a prestare la loro opera, a offrire i loro servizi, a fornire loro i genuini prodotti locali dell’agricoltura e della pastorizia, insomma ad affaccendarsi e a trafficare con i legionari.
Per tali intensi rapporti e lunghi contatti i Salentini rimasero maggiormente influenzati e permeati della civiltà romana, dei cui benefici effetti godettero nei secoli successivi, effetti che si ripercossero nella vita civile e culturale, spirituale e morale delle nostre popolazioni.
Evidentissime sono, tra l’altro, le assonanze e le convergenze e le derivazioni lessicali tra la lingua latina e il genuino dialetto leccese, più di qualsiasi altra parlata meridionale.
9- Un centro agricolo
E Cavallino risentì favorevolmente dei suddetti vantaggi, consentendo agli abitanti di migliorare le condizioni economiche, di accelerare il loro sviluppo, di ingentilire il loro animo e di raggiungere un distinto grado di floridezza.
Caballinum era un centro agricolo abitato da pastori e agricoltori; i primi si dedicavano alla pastorizia e all’allevamento degli ovini e dei bovini, i secondi alla coltura dei vigneti, oliveti, cereali, legumi e ortaggi, in gran parte destinati a rifornire il mercato della vicina città di Lecce.
Tra l’abitato e il mare, che dista appena dodici chilometri, non c’era una via di comunicazione diretta, segno che a quei nostri antenati non interessavano affatto i traffici marittimi: evidentemente essi intrattenevano frequenti scambi commerciali con i paesi dell’entroterra, specialmente con Lecce e con Rudiae.
Lecce, in particolar modo, sotto l’Impero Romano era pervenuta a tanto rigoglioso sviluppo da permettersi la costruzione di un vasto teatro e di un grandioso anfiteatro provvisto di undici ordini di gradinate.
E i Cavallinesi erano certamente presenti sulle gradinate dell’anfiteatro quando si davano spettacoli di lotta tra gladiatori e belve.
I nostri antenati vestivano in maniera assai semplice: gli uomini indossavano sempre un’identica veste, la tunica, una specie di camiciotto senza maniche che arrivava alle ginocchia; la tunica delle donne aveva una identica foggia, era solo più lunga e pieghettata.
Anche i Cavallinesi veneravano le numerose divinità greche e romane, ma riservavano un culto speciale agli spiriti dei familiari defunti, protettori della casa, e alle divinità campestri, protettrici dell’agricoltura, alle quali venivano offerte preghiere, primizie agresti e sacrifici di piccoli animali.
Ma la religione pagana era frammista a molte superstizioni; per esempio: un gatto nero che attraversava la strada portava disgrazia; passare sotto una scala a pioli era di cattivo augurio; inciampare sulla soglia di casa era segno di sventura; lo starnuto era indizio di malasorte e per scongiurare il pericolo si augurava "Salute!".
Poi verso il IV-V secolo cominciò a penetrare nella rustica comunità cavallinese la novella religione cristiana, predicata dai primi vescovi di Lecce, tra cui Oronzo, Giusto e Fortunato.
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