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Cavallino attraverso i secoli
Capitolo precedente: Capitolo quarto Capitolo successivo:
Dalla conquista normanna
alla venuta dei Castromediano
Dal governo di Maria d'Enghien
alla costituzione del feudo
Dalla rivolta dei baroni
alla fine della contea di Lecce

PARTE PRIMA: LA BARONIA

Capitolo quarto

DAL GOVERNO DI MARIA D'ENGHIEN ALLA COSTITUZIONE DEL FEUDO



1- La contessa Maria, regina

Un periodo di pace e di relativo benessere godettero i Cavallinesi sotto il saggio governo di Maria d’Enghien, contessa di Lecce, ancora oggi - strano ma vero - dopo seicento anni, ricordata con affetto e simpatia.

Nel 1394 Maria, ventunenne, si unì in matrimonio con Raimondello Orsini del Balzo, principe di Taranto. Fu un matrimonio di convenienza politica voluto da Raimondello allo scopo di raddoppiare l’estensione delle sue terre con l’aggiunta del vasto territorio della contea di Lecce che comprendeva quasi l’intero Salento.

Tenendo in debito conto i sentimenti di fedeltà e i numerosi servigi prestati alla contessa Maria dai fratelli Anzolino e Luigi I Castromediano e dal figlio di questi, Giovanni Antonio, il principe Raimondello riconobbe i diritti feudali e confermò i privilegi che la famiglia Castromediano ormai vantava sui casali di Cerceto e di Cavallino, questo di recente acquisito. Non tutto il territorio di Cavallino era infeudato ai Castromediano; i poderi che si estendevano verso Lecce appartenevano ancora al patrimonio personale della contessa e da lei erano direttamente amministrati.

Nel 1406 Maria d’Enghien, a trentatre anni, rimase vedova con i figli Giovanni Antonio, Gabriele, Maria e Caterina.

La nostra contessa, aiutata dai baroni e dai vassalli, seppe resistere validamente alle truppe di re Ladislao di Napoli, il quale era sceso con l’intento di occupare il feudo di Taranto e Lecce con la forza; ma l’anno dopo non seppe resistere alle ipocrite profferte d’amore di Ladislao, con cui, contro il parere dei fedeli consiglieri, Maria si unì in matrimonio nel suo castello di Taranto.

La poveretta, trasferitasi a Napoli, la capitale, fu maltrattata dal marito e ancor più dalla cognata Giovanna, venne tenuta in disparte, quasi prigioniera a palazzo reale, impossibilitata a comunicare con qualsiasi gentiluomo leccese.



2 - Condizioni più umane

Ladislao morì nel 1414; gli successe al trono la sorella Giovanna I e la vedova regina Maria, estromessa dalla successione, tornò a Lecce, per fortuna della sua famiglia reintegrata nel suo principato e nella sua contea.

Durante il governo di Maria i pesi feudali si erano attenuati e i sudditi cavallinesi godettero di più favorevoli condizioni umane sociali ed economiche. In generale i rapporti feudali erano mutati a favore dei vassalli: i contadini, per esempio, dovevano produrre con mezzi propri e dare al signore non tutto il raccolto, come nei tempi passati, ma dovevano consegnare una rendita costante prestabilita, la quale, però, doveva essere versata comunque e qualunque fosse stata la effettiva resa dell’annata; il di più rimaneva al coltivatore. Avvenne allora che il contadino, il pastore, lavorando nella certezza di produrre anche per sé, riusciva a produrre più di quanto doveva consegnare al padrone e, pertanto, prese a risparmiare e ad accumulare.

In quel tempo i coloni che abitavano nei campi, sentendosi meno servi e meno legati alla terra, cominciarono via via a lasciare la dimora rurale e vennero a risiedere nel borgo e, uniti agli altri loro simili, ripresero a vivere un’esistenza più ricca di rapporti umani e maggiormente confortata da reciproci sostegni materiali.

E lo spirito di fraterna solidarietà era necessario allora, per affrontare le avversità che frequentemente si abbattevano sulla piccola comunità di contadini e pastori, i quali da soli dovevano superare malanni e sventure, senza poter sperare in soccorsi e aiuti dall’alto.



3- Nuove tecniche di lavoro

I coltivatori, producendo anche per se stessi, si industriavano per migliorare i metodi di coltivazione, introducendo nuove tecniche di lavoro. Si cominciò ad applicare con un più razionale criterio l’avvicendamento delle colture. Dal ciclo biennale i nostri contadini passarono a praticare il ciclo triennale, che consisteva nell’effettuare su un fondo il primo anno la coltivazione, per esempio, di cereali che sfruttano molto il terreno; il secondo anno la coltura di leguminose, piante che migliorano la fertilità della terra; e il terzo anno nel lasciare riposare il podere a maggese (ad erba spontanea).

Il vantaggio era che un medesimo campo veniva coltivato due volte in un triennio anziché una volta in un biennio.

Non molti anni dopo si cominciò a praticare pure il sovescio, cioè l’interramento di piante fresche, allo scopo di migliorare la natura del terreno agrario, arricchendolo di sostanze concimanti in esse contenute.

Vennero introdotte anche nuove colture, per esempio le melanzane, i carciofi, il gelso, e proprio da questo ebbe origine in Cavallino l’allevamento del baco da seta.

Si cominciò a praticare inoltre la ferratura a chiodi dei cavalli, la quale evitava l’usura degli zoccoli; fu applicata anche la ruota all’aratro e il vomere di ferro poteva affondare e rivoltare la terra fino a quindici centimetri.

Finalmente, sebbene con molto ritardo rispetto ad altre regioni italiane, i contadini introdussero un ritrovato, si può dire, rivoluzionario: il collare rigido a spalla per gli animali da tiro. Prima l’animale da lavoro veniva legato al traino o all’aratro mediante una cinghia legata intorno al collo, per cui, se era sottoposto a tirare un carico superiore ai quattro quintali, la cinghia si stringeva alla gola e la bestia, sentendosi soffocare, interrompeva lo sforzo del tirare. Con il nuovo sistema, invece, il collo e la gola rimanevano liberi, i tiranti venivano a gravare sulla spalla e sul petto, sicché la potenza trainante dell’animale aumentò di quasi otto volte.



4 - Multe e ammende

Si conservano ancora gli “Statuti della Bagliva” promulgati da Maria d’Enghien. Essi erano un insieme di disposizioni volte a disciplinare la complessa materia dei dazi, con le relative pene agli evasori; contenevano, inoltre, numerose norme per la tutela delle proprietà dai danni apportati da animali pascolanti, e, infine, regolamenti d’igiene e di pubblica moralità. Gli statuti furono ritenuti tanto saggi ed equi, che, anche dopo la morte della contessa Maria, man mano riveduti e opportunamente aggiornati, rimasero in vigore per molti anni successivi in tutto il territorio della contea e dunque nel casale di Cavallino.

I baglivi o baiuli avevano il compito di regolare gli usi civili; essi avevano anche il potere di comminare ammende, di riscuotere i dazi, di rendere giustizia nelle liti civili, di arrestare i rei colti in flagrante.

Severe erano le disposizioni in difesa della pubblica moralità: se uno osava bestemmiare Dio, la Vergine Maria, i Santi, era tenuto a pagare un tarì alla Corte e 10 grana (mezzo tarì) all’accusatore. Se uno sposato veniva scoperto in rapporti intimi con una donna estranea, era punito con l’ammenda di 4 once (multa salata!); uguale pena era tenuta a pagare l’amante, e se costei non aveva soldi e l’amico non provvedeva, doveva essere scudisciata a dorso nudo.

Con una minuziosa casistica erano stabilite le pene pecuniarie per danni arrecati dagli animali alle colture: i padroni delle greggi, oltre che risarcire i danni ai proprietari dei fondi, dovevano pagare come multa 3 tarì per ogni animale grosso e 7 tarì per ogni centinaio di animali piccoli.

I cittadini di Lecce (i soliti privilegiati!) risarcivano dei danni arrecati i proprietari dei fondi, ma erano esentati dalla multa e perciò i caprai leccesi sfrontatamente venivano a pascere il gregge nei maggesi e talvolta nei seminati dei contadini cavallinesi.



5 – Un’altra leccese, regina di Napoli

Alfonso I d’Aragona, cacciati gli Angioini e impadronitosi del regno di Napoli (1442), convocò nella capitale tutti i feudatari per ricevere, in cambio di ulteriori privilegi, l’attestato di fedeltà e di obbedienza. Presto il re si rese conto della potenza e della prepotenza del principe di Taranto e conte di Lecce Giovanni Antonio Orsini del Balzo, padrone di un feudo vasto quanto la metà del Reame, estendendosi in Terra d’Otranto, in Terra di Bari, in Basilicata, in Capitanata e persino in Campania.

Nell’ambito del feudo l’Orsini possedeva più di trecento castelli, sette città arcivescovili e trenta vescovili e dal suo beneplacito dipendevano le assegnazioni dei prelati nelle diocesi di sua pertinenza.

Per renderselo amico e alleato, Alfonso I gli chiese, per il figlio Ferrante, principe ereditario, la mano della nipote Isabella di Chiaromonte, unica erede dell’Orsini. Questi si sentì lusingato e orgoglioso della richiesta e altrettanto felice fu la graziosa Isabella, la quale era nata e vissuta a Lecce, alla corte della contea che sempre si era segnalata per la vita brillante, cortese e fastosa.

Il cronista Lucio Cardami, vissuto in quel tempo, annotò nei suoi “Diarii”: “A dì 30 Aprile re Alfonso mandao ad Lecce Semone Pierez Corellia cum multi Segnuri pe pilliare Isabella de Claramonte mogliera de lo Segnore Duca de Calabria et portarela ad Napoli”.

Durante la settimana precedente la partenza, da tutto il contado accorse gente a Lecce per festeggiare la futura regina, per salutare la bella contessina che tante volte aveva ammirato passeggiare per le vie della città o cavalcare con le damigelle per i borghi di Cavallino, Surbo, Arnesano, San Cataldo e Tafagnano.



6- Il terremoto

L’anno 1456 il casale di Cavallino fu scosso da un forte sisma; fortunatamente i danni furono limitati: crollò qualche stalla, alcune vecchie abitazioni rimasero lesionate.

Il nostro cronista sempre nei suoi “Diarii” così lasciò scritto: “A dì 5 Decembre die Dominico ad ore II pe tutto lo Reame venne no tremolizzo grande.. .In Provincia di Terra di Otranto facìo grande damno a Brindisi, Oria, Alessano, Manduria, Castro, Nerito (Nardò) e Lezze. Pe paricchi giorni si sentìo lo dicto tremolizzo et omne uno stava pe paura alla campagna et nullo dormiva né mangiava.”

L’anno successivo gravi danni alle colture furono provocati da una nevicata eccezionale. Lo stesso cronista ci informa che “ A dì 15 Jannarii in omne Terra d’Otranto foi tanta nevi che arrivao a dodici parmi: moriro paricchi animali de terra et dell’aria, et seccaro bona parte dell’albori.”

E l’anno dopo anche “A dì 20 Aprile vennero in omne Terra d’Otranto tanti de brucoli (ruculi = cavallette), che fo no stopore, et se mangiaro omne seminato, vigneto, albori et omne cosa et pe tutto l’anno ci fo ‘na penuria grande”.

I Cavallinesi in tali circostanze dovettero affrontare situazioni nuove a cui non erano preparati; certamente non ci furono morti per fame, giacché ogni famiglia di contadini aveva in casa un po’ di provviste e, inoltre, tra i poveri nelle sventure era vivo il senso di solidarietà; ma patirono il freddo intenso e persero parecchi capi di bestiame, i più deboli, morti a causa della prolungata mancanza di foraggio, e naturalmente il danno economico fu rilevante.



7- Il feudo si consolida

Frattanto in Cavallino a Luigi I Castromediano e a Luisa de Noha era successo il figlio Giovanni Antonio I. A questi, agli inizi del sec. XV, con il consenso della contessa Maria, della quale era intima amica, la baronessa Mita de Noha donò, quale parente di grado più vicino, la sua quota parte del feudo, cosicché Giovanni Antonio I Castromediano diventò 10° barone ed unico signore del casale di Cavallino e dell’intero territorio pertinente.

La legittimità dell’acquisizione del feudo da parte del casato dei Castromediano fu riconosciuta e sanzionata con atto emanato in data 30 agosto 1447 dal grande feudatario Giov. Antonio Orsini del Balzo, il figlio della contessa Maria, il quale - come s’è detto - aveva giurisdizione preminente e potestà incontrastata sul principato di Taranto e sulla contea di Lecce.

La suddetta infeudazione successivamente fu approvata e convalidata dal re di Napoli Ferrante d’Aragona con privilegio datato 16 dicembre 1467; nel regio strumento era specificato che i diritti e i doveri, derivanti dal rapporto gerarchico di vassallaggio tra sovrano che concedeva il beneficio e feudatario che giurava fedeltà, venivano estesi ai rispettivi successori.

Il regime feudale, consolidato dalla tradizione e dalla legislazione del tempo, continuò ad evolversi a favore dei baroni e a danno dei sudditi. I sovrani aragonesi, di origine straniera, non si sentivano sicuri sul trono di Napoli e, per reggersi e durare, si appoggiavano alle città demaniali, concedendo facilitazioni fiscali e vantaggi politici. A volte, tuttavia, essi erano costretti a chiedere aiuto anche ai feudatari; allora questi ne approfittavano e i re erano obbligati ad accogliere le insistenti pretese e a sopportare gli arbitrii sfrontati degli indocili baroni, che cercavano di accrescere i privilegi e le prerogative imponendo al sovrano i loro interessi personali a scapito del benessere dello Stato e della Nazione.




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