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Cavallino attraverso i secoli
Capitolo precedente: Capitolo quinto Capitolo successivo:
Dal governo di Maria d'Enghien
alla costituzione del feudo
Dalla rivolta dei baroni
alla fine della contea di Lecce
Dal martirio di Otranto
all'occupazione spagnola

PARTE PRIMA: LA BARONIA

Capitolo quinto

DALLA RIVOLTA DEI BARONI ALLA FINE DELLA CONTEA DI LECCE



1- I baroni si ribellano

I baroni, discendenti di tutti gli avventurieri feudali venuti in questa disgraziata terra, l’Italia meridionale, in cerca di fortuna, erano sempre insofferenti dell’autorità regia.

Questi signori, turbolenti e vessatori, da ogni situazione di disordine uscivano con privilegi accresciuti, così che via via si erano resi quasi indipendenti dal potere sovrano e nella loro giurisdizione si comportavano come piccoli sovrani, operando a loro piacimento senza dar conto a nessuno.

Il 1458 sul trono di Napoli ad Alfonso I d’Aragona successe il figlio Ferrante. I baroni gli erano ostili perché ne avevano intuito la ferma determinazione politica di accentrare l’autorità e il potere della monarchia diminuendo l’autonomia e la forza dei feudatari.

Ferrante, avendo urgente necessità di risanare le casse dello Stato, sospese l’annuale pagamento dei 100.000 ducati d’oro allo zio della regina Isabella, Giovanni Antonio Orsini del Balzo, quale Gran Conestabile del Regno, e questa fu la scintilla che fece accendere tra i due l’incendio di un’aspra contesa.

L’Orsini incitò alla ribellione tutti i baroni del regno; ai subfeudatari del suo principato e della sua contea, per legarli maggiormente a sé, promise più ampi privilegi e agevolazioni; ai Castromediano, per esempio, offrì una quota parte del feudo di Morciano con il diritto di esercitarvi persino la giurisdizione criminale in prima istanza.

Allorquando al ribelle Orsini del Balzo si unirono numerosi baroni, la lotta tra questi e il re si mutò in vera guerra guerreggiata, nella quale Ferrante per un lustro dovette impegnare tutte le sue forze.

Il barone di Cavallino Giovanni Antonio I Castromediano ebbe l’accortezza di non schierarsi dalla parte dell’Orsini. Questo spiega il fatto che, domata la rivolta, il re lo premiò confermandogli il dominio e i privilegi acquistati sul casale e sulle terre del feudo di Cavallino.



2 - Un coraggioso rifiuto

Dopo quattro anni di guerra difficile e confusa con defezioni e riconciliazioni da parte dei baroni, che passavano dall’una all’altra parte, nel 1462 i casali della contea di Lecce abbandonarono il loro signore, Giovanni Antonio Orsini del Balzo, e lo costrinsero a ritirarsi in Lecce. Poco dopo, però, riorganizzate le forze con l’apporto di truppe mercenarie, l’Orsini si mise a punire severamente i suoi sudditi ribelli.

I Cavallinesi esasperati, per nulla intimoriti dalle minacce del principe-conte, si rifiutarono di fornire al potente signore ulteriori aiuti, soldati e cavalli o il corrispettivo in denaro, e risposero risolutamente che non solo erano desiderosi di pace, ma che preferivano passare a far parte del demanio regio; il che voleva dire liberarsi dal servaggio e dai molteplici doveri feudali.

Incalzato dai soldati del re, l’Orsini si rifugiò nel suo castello di Altamura e qui fu colto da subitanea morte, molto probabilmente causata da veleno, all’età di 77 anni (1463).

Antonello Coniger annotò nella sua “Cronaca”: “Die 15 Novenbrio in Altamura lo Illustrissimo signor Prencipe Iuhanne Antonio fo morto senza figliuoli remanendo suo Stato solo, allora Lecce prima levò (innalzò) le bandiere del Re Ferrante et de la Regina Isabella sua mogliere, nepote de dicto Prencipe, et però tutto lo Stato fece come havìa facto Lecce”.

Anche gli abitanti di Cavallino, che allora sopportavano la giurisdizione del barone Giovanni Antonio Castromediano, calorosamente invocarono il sovrano affinché li accogliesse nel regio demanio.



3 - La contea di Lecce nel demanio

Re Ferrante d’Aragona venne incontro ai desideri dei sudditi e con decreto stabilì che le terre non infeudate della contea di Lecce fossero incorporate nel demanio regio, aggiungendo la promessa che la città di Lecce, che era rimasta fedele alla corona e aveva invocato la monarchia, mai più sarebbe stata concessa ad un barone.

Ma la petizione dei Cavallinesi non fu accolta dal sovrano, perché Cavallino era già un feudo legittimamente costituito; re Ferrante in persona lo aveva riconfermato in favore di Giovanni Antonio I Castromediano; perciò la richiesta non poteva essere e non fu effettivamente accolta. Cavallino resterà nella condizione di feudo per altri trecento quaranta tre lunghi anni; diverrà, infatti, libero comune nel 1806.

Tuttavia, un vantaggio temporaneo i Cavallinesi lo ottennero: avendo abbattuto, come i Leccesi, la bandiera dell’Orsini del Balzo e innalzata quella aragonese, vennero esentati per cinque anni dal pagamento dei tributi dovuti al Regio Fisco, ed era una gran cosa. Comunque avevano conseguito un altro beneficio, e questo definitivo: non tornavano, è vero, liberi e franchi, come avrebbero voluto, perché continuavano ad essere vassalli della famiglia dei Castromediano, ma si scrollavano di dosso i gravosi vincoli feudali dovuti al principe-conte; insomma, da quel momento invece di tre padroni ne avranno due: il re e il barone.

Il 6 dicembre 1463 re Ferrante, ormai vittorioso sui baroni e, come marito di Isabella nipote dell’Orsini, erede legittimo dei territori del principato di Taranto e di quelli della contea di Lecce, tra l’entusiasmo delle folle delle contrade che attraversava, da Oria giunse a Lecce. Il Cardami scrisse: “Il Re entrao en Lezze et pe omne loco fo receputo sotto pallio di oro et carmosino et se mostrao co omne benegno et graziuso”.

E’ superfluo aggiungere che tra la folla plaudente c'erano anche i Cavallinesi, alquanto delusi per la mancata inclusione nel demanio regio, accorsi tuttavia per tributare a re Ferrante d’Aragona il loro ossequio di sudditi fedeli.



4 – I baroni si sottomettono

Il giorno dopo, 7 dicembre, Ferrante, accompagnato da un ristretto numero di fedelissimi cortigiani e dal tesoriere, si recò al castello, ricevuto dal castellano Bartolomeo Prato; attese distratto e impaziente la fine della cerimonia di saluto e poi si fece accompagnare nelle ben munite stanze dove era custodito il tesoro del principe-conte Orsini del Balzo.

Quando alla presenza di poche persone furono aperti i forzieri, il re e gli astanti rimasero felicemente meravigliati alla vista di un mucchio di 600.000 monete d’oro; in un altro locale erano raccolti vasi, coppe, vassoi ed altri oggetti e monili di oro e di argento e pietre preziose e arazzi e tappeti; inoltre, nei magazzini stavano ammassati 10.000 tomoli di grano, i quali, opportunamente furono subito dati ai soldati che da qualche tempo protestavano brontolando “Fame, fame! La paga, la paga!”.

Lo stesso giorno il re, felice e soddisfatto, premiò i sudditi di Lecce e di tutto il contado prolungando l’esenzione dalle imposte governative da cinque a dieci anni.

Il 10 dicembre il sovrano ricevette in udienza solenne i baroni di Terra d’Otranto, i quali gli fecero atto di sottomissione. Arrivato il suo turno, anche Giovanni Antonio Castromediano, inginocchiatosi e posata la destra sul sacro messale, giurò obbedienza e fedeltà al re a suo nome e per conto dei vassalli.

Pochi mesi dopo, tornato a Napoli, il sovrano riconfermò nel feudo di Cavallino il barone Giovanni Antonio I, il quale, ormai rassicurato che re Ferrante non gli avrebbe tolto la prerogativa e la giurisdizione feudale, comprò da Stefano Barone, figlio di Gabriele, metà del feudo di Vermigliano nei pressi di Lecce, ingrandendo ulteriormente i possedimenti del suo casato.



5 - Come veniva amministrato il feudo

Il barone amministrava autonomamente il suo feudo e vi esercitava anche una certa giustizia civile e penale. Egli era capo politico, giudice e, in caso di mobilitazione, comandante unico dei suoi vassalli, che, raggruppati in una schiera di fanti archibugieri e in un drappello di cavalleggeri, da lui stesso venivano armati e guidati.

Il barone era pure il responsabile della raccolta delle imposte spettanti al re. Tra le tasse ordinarie, la più pesante era il “focatico”, imposta diretta personale riscossa per famiglia (fuoco); tuttavia non passava anno che non arrivasse una tassa straordinaria. Ebbene, i percettori regi non riscuotevano i tributi annuali e quelli straordinari direttamente dalle singole famiglie; alla raccolta del ducato a fuoco e delle imposte una tantum si interessava il barone, il quale tanto doveva versare al Regio Fisco quanto era l’importo relativo al numero dei nuclei familiari residenti nel feudo, censiti e iscritti in elenchi che periodicamente venivano aggiornati.

Dopo aver pagato alla Regia Corte il dovuto “rilievo” (un tributo feudale personale), dopo aver versato al Regio Fisco le imposte riscosse dai coloni e dai servi, il barone si rifaceva su questi infelici aggravandoli di esazioni, taglie e collette, imponendo dazi, gabelle, pedaggi, contribuzioni in natura, balzelli e prestazioni gratuite di giornate lavorative.

Alla riscossione di tutti questi pesi pecuniari erano addetti il tesoriere, i percettori, i dazieri, i baiuli, i gabellieri e, per la raccolta dei tributi in natura, i fattori e i sorveglianti, alcuni dei quali finivano per arricchirsi a spese dei coloni e anche del barone.

Il feudatario, inoltre, aveva la prerogativa di discutere in prima istanza le cause tanto civili che penali. Se non riusciva a dirimere una questione, la rinviava in seconda istanza; in tale caso le liti tra privati e fisco si esaminavano nella Regia Camera della Summaria, le contese tra soli privati si discutevano nel Sacro Regio Provincial Consiglio, e nella Regia Corte della Vicaria (sezione staccata di Lecce) si trattavano le cause che comportavano “morte o mutilacione de membro”. Questi tre Organi giudiziari avevano sede in Lecce capoluogo.



6 - Una economia autarchica

Nel feudo si praticava una politica economica elementare. Gli abitanti cercavano di risparmiare il più possibile e ad esportare tutto ciò che avanzava; dall’altra parte facevano a meno di importare persino ciò di cui avevano bisogno. Era, insomma, una economia chiusa: il feudo doveva bastare a se stesso; in tal modo era preclusa qualsiasi possibilità di progresso civile e di sviluppo economico.

Del tutto inesistenti erano le attività industriali, miseri e alquanto rozzi i prodotti artigianali, molto limitati gli scambi commerciali. Nel casale, naturalmente oltre quelli di proprietà del barone, c'erano due forni privati per cuocere il pane, due officine di fabbro-maniscalco e botteghe di falegname, sarto, calzolaio, sellaio, barbiere.

I redditi degli artigiani risentivano dell’andamento buono o cattivo delle annate; essi per clienti avevano solo i coloni e da questi venivano compensati in natura (la moneta era assai scarsa); perciò quanto più favorevoli erano le annate e abbondanti i raccolti, tanto più munifici erano i contadini. Servi, coloni, artigiani per l’alimentazione disponevano di pane di orzo, zuppa di avena, legumi, ortaggi; assai scarso era il consumo della carne, generalmente maiale, che allietava la tavola solo in speciali ricorrenze festive.

Cominciavano allora ad apprezzare i maccheroni preparati in casa e le lasagne con i ceci. A Natale, a Pasqua, alla festa della Madonna del Monte e di Santo Oronzo si uccideva un pollo o un coniglio del proprio allevamento familiare.



7- La peste

Per due lunghi anni, dal 1466 al 1468, la città di Lecce fu travagliata da una terribile epidemia. Scrisse il cronista leccese Antonello Coniger: “In Lecce fu una grande peste dove moriano sessantasei persuni lo dì, durò anni duo, e foronci morti quattordicimila persuni”. Anche alcuni documenti ufficiali, raccolti nel cosiddetto ”Libro Rosso della Città di Lecce”, confermano la notizia e le cifre dei morti. La medicina era impotente a soffocare subito la malattia infettiva, le autorità facevano quanto potevano per alleviare le sofferenze della cittadinanza; per il gran numero dei decessi non venivano celebrate le onoranze funebri, ma i cadaveri, ricevuta una frettolosa benedizione, venivano deposti e sepolti in fosse comuni.

Per preservare Cavallino dal contagio, gli abitanti crearono, come erano abituati a fare in simili circostanze, il cordone sanitario intorno al paese: a nessun forestiero era permesso entrare in paese, nessun abitante si azzardava di allontanarsi dal casale, i lavori nei campi erano quasi del tutto interrotti e così i rapporti sociali.

Vinto il morbo, re Ferrante, per agevolare il ripopolamento di Lecce, la città della regina Isabella, ordinò che gli abitanti che si erano allontanati, pena la confisca dei beni, tornassero con tutte le loro robe; inoltre in favore dei forestieri che volessero stabilirsi in Lecce concesse numerosi privilegi, tra cui l’esenzione per la durata di un decennio da tutti i tributi fiscali e i pesi daziari

La deliberazione fu emanata da Ferrante d’Aragona in data 15 marzo 1467 e trovasi trascritta nel Registro dei Privilegi numero XXIIII, conservato nell’Archivio di Stato di Napoli.



8 - “L’aria della città rende liberi”

Dell’ordinanza regia approfittarono parecchi vassalli, specialmente servi della gleba e alcuni coloni. Questi sventurati erano legati alla terra del signore feudatario; essi guardavano alla città come al regno della libertà e del benessere. Non vi avrebbero certo trovato il paradiso immaginato, ma, vivendo in zona demaniale, si sarebbero liberati finalmente dai vincoli servili di vassallaggio e sarebbero diventati sudditi di un solo padrone, il re.

I baroni di Terra d’Otranto cercarono di trattenere i loro dipendenti con ogni mezzo, anche con i cani addestrati a scovare e a immobilizzare i fuggitivi. L’Università, cioè la città, di Lecce denunziò al sovrano il comportamento dei feudatari contrario alle disposizioni impartite nella regia ordinanza, e lo informò che “essendo venuti vaxalli de alcuni baruni a faresi citatini de dicta cità, li dicti baruni et signanter (specialmente) Ioanne Antonio barone de Caballino li impediscono”, chiese al re di volere riconfermare all’Amministrazione cittadina la potestà e la facoltà di concedere la cittadinanza leccese ai forestieri, che volessero prendere la residenza in Lecce.

In data 7 novembre del 1467 Ferrante rispose dando il suo assenso e apponendo alla richiesta il suo “Placet Regiae Maiestati” (Registro dei Privilegi n. XXVIII - Archivio di Stato - Napoli).

Ma i baroni non si rassegnarono e non si diedero per vinti.

Oggettivamente non potevano rimanere senza vassalli, sia perché diminuivano le braccia da lavoro, sia perché, diminuendo i nuclei familiari, vale a dire i contribuenti, scemavano anche le entrate dei feudatari.

Essi ricorsero al re, esponendo le loro ragioni e citando i privilegi a loro concessi dai precedenti sovrani e supplicando che i loro vassalli fossero obbligati a ritornare nelle terre che avevano abbandonate.

E gli amministratori leccesi a controbattere che se fossero costretti, per mutata decisione regia, a depennare i nuovi cittadini dagli elenchi dei fuochi, deriverebbe un notevole danno economico al bilancio comunale e la dignità della città di Lecce sarebbe rimasta “beffigiata da omne uno”.

Re Ferrante d’Aragona l’11 dicembre dell’anno 1468, alquanto seccato, rispose agli uni e agli altri che avrebbe provveduto di persona a risolvere la controversia quando avesse esaminato più approfonditamente la questione (Libro Rosso della Città di Lecce, Privilegio n. 46, pag. 422).




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