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Cavallino attraverso i secoli
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Dall'apogeo del feudo
alla fine dei viceregno
Dalla venuta dei Borboni
alla fine del feudalesimo
Dall'abolizione del feudalesimo
all'estinzione dei Castromediano

PARTE SECONDA: IL MARCHESATO

Capitolo decimo

DALLA VENUTA DEI BORBONI ALLA FINE DEL FEUDALESIMO



1- Continua la dinastia dei marchesi-duchi

Dopo una breve occupazione austriaca (1701-1734), Carlo di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna, venne in possesso del regno di Napoli, che tuttavia tornò ad essere autonomo e indipendente rispetto alla monarchia e allo stato spagnoli.

Frattanto in Cavallino don Giacinto Maria I Castromediano era morto senza lasciare figli. L’erede maschio di grado più vicino era lo zio Giusto. Questi da giovinetto era stato paggio del Gran Maestro dell’Ordine Gerosolimitano, era dunque destinato ad avviarsi alla carriera religiosa dei Cavalieri di Malta; ma, non avendo ancora fatto la professione solenne dei voti, venne richiamato a Cavallino perché era stato segnalato alla carica di Governatore della città di Lecce, e difatti tenne l’incarico nell’anno 1707.

Dunque, Giusto Castromediano nel 1768 successe al nipote e assunse il titolo e il dominio del maggiorasco, divenendo 20° barone, 5° marchese e 4° duca. Aveva già sposato la marchesina Eleonora Macedonio, dalla quale aveva avuto cinque figli: Francesco e Kiliano, morti entrambi molto giovani; Domenico, il successore; Antonia e Margherita, monache a Napoli. Domenico successivamente sposò la nobilissima veneziana Cornelia Cornaro, la quale partorì cinque figli: Giacinto Maria, l’erede; Gaetano, il secondogenito; Pasquale, religioso professo dell’Ordine dei Gerosolimitani; Eleonora e Fortunata, sposate e ambedue residenti a Napoli. Essendo stimato come uomo saggio e capace, dal re Carlo di Borbone Domenico fu nominato Governatore di Salerno e Sorrento, carica che esercitò con giustizia e competenza per ventisette anni.

Alla morte del padre don Giusto, Domenico I fece ritorno a Cavallino, assunse nel 1769 i titoli e l'amministrazione del feudo e fu il 21° barone e 6° marchese di Cavallino ed il 5° duca di Morciano. Anche lui morì dopo pochi mesi e venne seppellito nella chiesetta dei frati domenicani di Cavallino.

Giacinto Maria II fu il 22° barone, il 7° marchese e il 6° duca. La moglie Maria Girolama Giordano gli diede un unico figlio, di nome Giusto, il quale premorì al padre.



2- Accattonaggio diffuso

Pareva impossibile; eppure le condizioni generali della popolazione del regno napoletano continuarono a peggiorare.

Al lusso e al fasto della classe nobile si contrapponevano gli stenti e le privazioni dei contadini. Le condizioni economiche e, quindi, sociali dei coloni e degli artieri nel Settecento erano peggiorate rispetto ai precedenti tre secoli per effetto del malgoverno spagnolo principalmente, a cui, per aggravare la situazione, si aggiungevano i ripetuti disastri naturali: invasioni di bruchi e di cavallette, siccità prolungate sino all’autunno e, al contrario, per tutto l’inverno e la primavera nevicate eccezionali, piogge eccessivamente abbondanti e grandinate rovinose.

Infatti, nell’Italia meridionale si era verificato un sensibile mutamento delle condizioni climatiche generali: era aumentato oltre il normale il tasso dell’umidità atmosferica la quale faceva marcire il frutto dei cereali e delle leguminose prima che giungesse a maturazione.

Specialmente d’inverno, quando i lavori dei campi allentavano, parecchi contadini cavallinesi si recavano in città per guadagnare qualche tornese in più facendo un secondo mestiere: impagliatori di sedie, riparatori di terraglie, raccoglitori di stracci, spazzacamini. Alcuni facevano gli accattoni per necessità e vero bisogno, ma non mendicavano nel proprio paese, andavano a Lecce e nei casali circonvicini; a Cavallino venivano ad elemosinare i mendicanti forestieri, girando strada per strada e bussando casa per casa. Altri erano falsi mendicanti, facevano gli accattoni di mestiere, i quali, fingendo di avere gambe e braccia anchilosate, di essere muti e sordi, raccontando disgrazie e mostrando un nugolo di figli, rubavano l’elemosina ai poveri autentici.



3- Una testimonianza degna di fede

Un cronista del tempo, Fr. Antonio Piccinni, così raccontò la terribile carestia degli anni 1727-1728: “Non si raccolse nemmeno quel che si era seminato. Il grano arrivò a carlini 24 a tomolo, statotiche (ortaggi estivi) e legumi scarsissimi.

“Si vedeva il numero infinitissimo di poveri andare questuando per la città, smunti emaciati e con la faccia cadaverica mentre i villani si pascevano di erbe crude e gli altri le radici di quelle senza un boccone di pane.

“Le donne povere vendevano la stima e l’onor loro per pochissimi quattrini, molti vi perdevano la vita atteso li morbi gallici che si attaccavano".

Proprio così! Quando cereali e legumi, che erano alla base dell’alimentazione dei contadini, venivano a mancare, allora il pane andava a costare a carissimo prezzo; la povera gente non disponeva di soldi e per la mancanza di nutrimento periva di inedia tra i solchi dei campi.

Nel 1760, a causa di un’altra carestia, il grano rincarò da 20 a 27 carlini al tomolo, mentre la paga giornaliera dei braccianti agricoli scese a carlini uno e mezzo.



4- Crisi dell’economia feudale

Quando si succedevano le annate cattive, non solo diminuivano gli introiti dei lavoratori, ma calavano anche i redditi del marchese. Ma questi aveva le sue spese fisse, per cui le sue entrate non potevano diminuire, e allora imponeva ai contadini la consegna di quote maggiori di raccolto, così che i guai della crisi agricola finivano per ricadere sulle già fragili spalle dei lavoratori.

L’economista napoletano Antonio Genovesi in quegli anni andava raccomandando: “Vogliamo migliorare la campagna? Facciamo che i contadini si persuadano di lavorare per sé e per i loro figli. Finché dormiranno a terra nuda e mangeranno gramigna e si reputeranno schiavi, non è da aspettarsi migliorie”.

Comunque, sin dalla prima metà del settecento la prepotenza dei feudatari poteva considerarsi esaurita per il fatto che la crisi economica provocò la crisi del regime feudale.

I duchi di Cavallino, per vendere i prodotti agricoli giacenti nei magazzini del palazzo, cercavano di incrementare le fiere e i panieri che si tenevano intorno al castello in giorni stabiliti, e per attirare compratori e venditori forestieri, concedevano privilegi e agevolazioni, rinunziando pure ai pedaggi e ai dazi sui pesi e sulle misure.

Effettivamente le attività artigianali e i traffici commerciali diventavano abbastanza remunerativi e per questo coloni sempre più numerosi, specialmente i giovani, alla scadenza dei contratti lasciavano i campi e si davano alla mercatura. Per trattenere i contadini sulla terra, il marchese-duca doveva concedere loro condizioni sempre più vantaggiose. diminuendo i vecchi gravami, aumentando i salari ai braccianti, rinunziando alle giornate di lavoro gratuite, mutando i contratti agricoli a vantaggio dei coltivatori.

Così le attività commerciali aumentavano e cresceva la circolazione monetaria; ma mentre cresceva l’importanza del denaro contante, diminuiva il valore venale dei prodotti della terra. E poiché il feudatario – ricordiamolo – veniva pagato generalmente in natura, la svalutazione dei prodotti della terra finiva per danneggiare soprattutto lui. Da ciò la crisi del sistema feudale. Per questo il feudatario si decise a liberarsi delle terre meno produttive cedendole prima a mezzadria e, successivamente, occorrendo denaro contante, in affitto.



5- I servi della gleba si riscattano

I servi domestici continuavano a prestare la loro opera nel palazzo (non sapevano fare altro mestiere) al servizio diretto del marchese, della marchesa e dei signorini, degli altri familiari conviventi e degli immancabili ospiti. Erano invece scomparsi quasi del tutto i servi della gleba.

Parecchi contadini, fortunati loro! , erano riusciti ad acquistare un campicello, diventando così piccoli proprietari e coltivatori diretti. Altri si erano trasformati in mezzadri e conducevano piccole aziende agricole, da cui traevano un discreto reddito. Di questo, tuttavia, un terzo andava a finire nei magazzini del marchese; del rimanente, parte doveva necessariamente bastare al sostentamento della famiglia e parte veniva destinato a risparmio, in attesa di acquistare un fazzoletto di terreno. Era il sogno di tutti i coloni.

Gli affittuari erano in una situazione più conveniente e favorevole che i mezzadri. Una volta pagato al padrone della terra il canone annuo d’affitto e date le regalie previste nel contratto, potevano effettuare nel fondo le coltivazioni che preferivano senza attendere il beneplacito del proprietario.

Ad ogni modo nel sec. XVIII s’incrementò sempre più la tendenza all’allodio, nel senso che quote sempre maggiori di beni immobiliari diventavano via via libere dalla soggezione e dagli obblighi feudali.

Ora, il mezzadro, l’affittuario, non badando alle fatiche, cercava di produrre più di quanto doveva dare al signore, vendeva l’eccedenza, incassava soldi e con l’innata parsimonia risparmiava e capitalizzava; al momento opportuno, il marchese bisognoso di contanti vendeva terreni, il contadino parsimonioso acquistava e si riscattava. Per esempio, nel 1770, il 6 ottobre, con regio assenso, Domenico I Castromediano, per necessità finanziarie e con vivo rammarico, vendette l’antico feudo di Cerceto; ma il ricavato non fu sufficiente per sanare la situazione economica della famiglia. Quindi, per far fronte alle immediate spese generali e per mantenere l’usuale tenore di vita confacente al suo rango, cominciò a prendere denaro in prestito dagli usurai strozzini e in tal modo si stringeva con le proprie mani il nodo intorno al collo.

Ormai i tempi per il crollo del regime feudale erano maturi e, infatti, non passeranno molti anni e le nuove idee di libertà-fraternità-uguaglianza spingeranno i popoli europei ad abbattere il feudalesimo ed a creare forme di governo basate su una maggiore giustizia sociale e su più libere istituzioni civiche e politiche.



6— L’infelice don Gaetano

A Giacinto Maria Il successe il fratello Gaetano che fu 23° barone, 8° marchese e 7° duca. Da giovane era stato ufficiale delle Guardie Regie e amico intimo di re Ferdinando IV di Borbone, dal quale fu nominato governatore di Salerno e Sorrento. Poi si stabilì a Cavallino, erede dei beni e del casato dei Castromediano.

Sposò Anna Vernazza, figlia del duca di Castrì, dalla quale ebbe dieci figli, tutti nati a Cavallino. Poi la duchessa Anna piantò il marito ammalato, abbandonò persino i figli e si unì ad un signore leccese.

I figli furono: Domenico, il successore; Chiliano e Giovan Battista entrambi avviati alla carriera militare; Sigismondo e Cornelia, morti di vaiolo in tenera età, Beatrice, Isabella, Irene, Rosa e Gaetana, tutte sposate a signori forestieri.

Nel 1787 don Gaetano, poiché la popolazione di Cavallino era notevolmente aumentata, fece abbattere la vecchia e stretta porta dell’Annunziata, posta al bivio da cui si dipartono la strada per San Cesario e quella per Caprarica e costruì Porta Nuova, ora Porta San Giorgio. Egli stesso aggiunse alla chiesa matrice il campanile alto 40 metri.

Solo più tardi, nel 1886, gli amministratori del comune diventato libero sostituirono al fondo rettangolare della chiesa un’abside semicircolare coperta da una semicupola.

Nel 1892, infine, a spese del Comune fu sistemato l’orologio in alto e il portale secondario sul lato destro del tempio.

Il duca Gaetano Castromediano, da anni sofferente di una grave forma di insufficienza renale, nonostante fosse curato dal medico di corte inviatogli dall’amico Ferdinando IV, dopo una vita di sofferenze e di dispiaceri, morì nel 1798 a Cavallino e fu sepolto nella chiesa del convento dei frati domenicani.



7- Due valorosi ufficiali liberali.

Lo stesso anno 1798, il generale Championnet, comandante dell’esercito della Rivoluzione Francese, giunse vittorioso a Napoli, quindi occupò tutto il regno e proclamò la Repubblica Partenopea, facendo esultare l’animo dei liberali, dei repubblicani, dei progressisti e suscitando in loro la speranza di migliori condizioni politiche, sociali ed economiche. Le nuove idee di libertà civica e di dignità umana furono accolte anche da numerosi giovani dell’aristocrazia, nei cui cuori generosi sorse un vivo entusiasmo per un rinnovamento più democratico della società, e per una maggiore giustizia sociale.

Due giovani cavallinesi, figli di don Gaetano Castromediano, Chiliano e Giovan Battista si arruolarono nell’esercito francese con il grado di primi ufficiali.

L’anno dopo, però, la Repubblica Partenopea fu abbattuta dalle truppe sanfediste del feroce cardinale Ruffo e a Napoli fece ritorno re Ferdinando IV di Borbone, animato da fieri propositi di vendetta.

Ma dopo sette anni Ferdinando IV fu nuovamente cacciato da Napoli e nel Reame tornarono i soldati francesi dell’imperatore Napoleone Bonaparte, il quale nominò suo fratello Giuseppe re di Napoli con il compito di instaurare una monarchia liberale costituzionale.

Chiliano e Giovan Battista, permeati delle nuove idee liberali, si arruolarono con il grado di ufficiali nell’esercito napoleonico e si distinsero nella difficile lotta contro il brigantaggio meridionale. Chiliano nel dicembre del 1806 uccise di sua mano il feroce bandito Domenico di Donato, ma l’anno successivo, essendo caduto in un agguato tesogli dai briganti, fu catturato e ucciso; il suo corpo fu fatto a pezzi e questi vennero appesi ai rami degli alberi come pasto agli uccelli rapaci. Successivamente furono recuperati e pietosamente inumati.



8- L’ultimo feudatario

A don Gaetano Castromediano successe nel 1798 il figlio Domenico II (24° barone, 9° marchese, 8° duca). Questi prese in moglie Anna Teresa Balsamo, dei baroni di Specchia, la quale portò una dote di 24.000 ducati. Dopo aver pianto la morte prematura di quattro figli, dopo aver sofferto lo sfasciamento del casato, macerata dal dolore, essa morì nel 1845 ed ebbe sepoltura nella chiesa dell'ex convento di Cavallino. La signora duchessa aveva messo al mondo ben tredici figli: Sigismondo, il primogenito, del quale parleremo più oltre; Chiliano, autore di "Memorie" degli antenati duchi; Giov. Battista, morto il 1840 a ventidue anni, fu sepolto a Cavallino nella chiesa del convento; Enrico ed Ascanio si trasferirono a Napoli insieme con il padre; Gaetana, Giulietta I e Giulietta II morirono l’una dopo l’altra in tenera età; Costanza sposò il cugino Gaetano Casetti; Adelaide, pure maritata, andò a vivere a Morciano; Giulietta III, Teresina e Luisa rimasero ricoverate nel Regio Conservatorio di Sant’Anna in Lecce, sovvenzionate dal fratello Sigismondo, il patriota.



9- Nessun controllo delle nascite

Molti figlioli non nascevano solamente nelle famiglie dei signori, che – si potrebbe pensare – avevano le possibilità di provvedere adeguatamente al mantenimento ed alla educazione di una numerosa prole.

Molti figli si avevano anche nelle famiglie dei villani. Dai coniugi contadini la prole numerosa era considerata un favore della provvidenza: più figli corrispondevano a molte braccia lavorative, a maggiore produzione e quindi a maggiore prosperità.

Ogni donna sposata rimaneva incinta tredici, quindici e più volte, ma oltre la metà dei bimbi moriva prima del compimento del quinto anno di età.

In mancanza dell’ostetrica, nel villaggio si dava molto da fare la mammana, la praticona, che assisteva al parto e non di rado alla morte della partoriente.

Il neonato per l’intero primo anno veniva tenuto avvolto strettissimamente in fasce, badando a stringergli diritte le gambine (qualche madre gli immobilizzava anche le esili braccia), affinché non crescessero storte. Durante il giorno il piccolo non veniva posto coricato nella culla, ma stava sistemato duro e diritto nella “testa”, come mummia.

Un’annotazione curiosa: in gran numero le nascite si avevano nel mese di maggio; dunque i concepimenti avvenivano verso la fine dell’estate, al termine delle grandi fatiche, al termine dei raccolti.




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