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Cavallino attraverso i secoli
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Cavallino sotto il dominio
del marchese Don Francesco
Dall'apogeo del feudo
alla fine dei viceregno
Dalla venuta dei Borboni
alla fine del feudalesimo

PARTE SECONDA: IL MARCHESATO

Capitolo nono

DALL'APOGEO DEL FEUDO ALLA FINE DEL VICEREGNO



1- Il primo duca

Nel 1642 il re di Spagna Filippo IV, come ricompensa per le testimonianze di fedeltà e di totale devozione, accordò al marchese Francesco Castromediano, ma per il figlio Domenico Ascanio, il titolo di duca di Morciano. L’anno successivo il medesimo don Francesco fu decorato dallo stesso sovrano con l’insigne Ordine Cavalleresco di Calatrava di Spagna. Allora il casato dei Castromediano, già facente parte della nobiltà napoletana, fu accolto anche nell’alta nobiltà e nell’esclusivo patriziato di Lecce.

Alla morte del padre don Francesco, Domenico Ascanio diventò il 17° barone e 2° marchese di Cavallino e il 1° duca di Morciano. Egli aveva preso in moglie Maria Isabella Caracciolo, di nobilissima famiglia napoletana, la quale gli aveva portato una dote di 23.000 ducati d’oro, una somma ingente. Le testimonianze affermano che la fastosità delle nozze superò di molto lo sfarzo del matrimonio tra don Francesco e donna Beatrice.

In onore della moglie, Domenico Ascanio nel 1656 (l’anno della pestilenza) fece innalzare all’imbocco di via Lecce una porta che chiamò “Porta Caracciolo”, in seguito abbattuta per ampliare e rendere più agevole l’uscita dal paese.

Anche il dominio di don Domenico Ascanio fu duro e oppressivo per il gravoso fiscalismo. Egli portò a compimento, è vero, i lavori fatti iniziare dal padre, ma a spese dei Cavallinesi che si videro addossare altri pesanti tributi straordinari oltre a una gabella detta “diritto de le femine” che consisteva nel pagamento di 5 tarì se un vassallo cavallinese prendeva in moglie una forestiera, di 10 carlini se un forestiero si portava via in moglie una ragazza di Cavallino.

Il cronista G. Guerrieri, vissuto all’inizio del 1700, constatò e testimoniò che “molti contadini lavoravano nelle terre baronali per piccola mercede con minaccia di scudiscio, le ragazze del popolo dovevano trasportare legna e paglia gratuitamente al castello del padrone, che per grazia le rimandava rispettate”.



2- Abbigliamento, usi e costumi

Nel seicento, portata dagli occupanti dominatori, si diffuse nelle nostre contrade tra i nobili la moda sfarzosa, barocca e vistosa degli Spagnoli. Il marchese e i suoi figlioli (si osservino i personaggi che tengono compagnia ai Santi nei grandi dipinti che ornano alcuni altari nella chiesa dell’ex convento) portavano calzoni e farsetto, marsina e giubbetto ornati di bottoni dorati, alamari e galloni; calzavano scarpe con tacchi alti e con grossa fibbia d’argento; alla vita stringevano una larga cintura di cuoio ornata di borchie; coprivano le spalle con una larga cappa e in testa mettevano un cappello piumato ad ampie falde.

La marchesa e le figliole indossavano il “guardinfante”, anch’esso di origine spagnola, una gonna larghissima fino a un metro e mezzo di diametro a forma di campana sostenuta da una intelaiatura di fili di ferro. Dal corpetto fuoriuscivano un ampio colletto di pizzo plissettato e maniche rigonfie e guarnite di trine e merletti.

Marchese, marchesa e marchesini nelle pubbliche cerimonie e nei convegni festosi acconciavano sul capo la parrucca bianca ricadente sugli omeri in riccioli a boccoli.

Logicamente i vassalli non ponevano mente a seguire la moda spagnolesca; essi continuavano ad usare le vesti semplici tradizionali: camicia di tela senza colletto, calzoni corti poco più giù del ginocchio, panciotto, giubba, mantella e cappellaccio di feltro.

Le donne indossavano sottogonna, gonna lunga fino a terra con grembiule e corsetto; in testa un fazzoletto nero (il colore del dispiacere) legato con due estremità sotto e intorno alla gola. I panni erano confezionati in casa per lo più di canapa oppure misti di canapa e cotone, canapa e lino.

Le scarpe e le calze di cotone ruvido, beh, sia gli uomini che le donne le mettevano solo nel periodo invernale; con il tempo buono andavano scalzi e mettevano i calzari soltanto la domenica o quando si recavano in casa del padrone.

Nobiluomini e popolani.., niente mutande; non erano state ancora inventate!

Nelle famiglie nobili le donne erano del tutto sottomesse agli uomini: da ragazze ai padri, da sposate ai mariti. Fin dalla fanciullezza venivano educate ad essere remissive ed ubbidienti, docili e sempre disposte ad accettare qualsiasi decisione, a soddisfare qualsiasi richiesta dei padri, dei fratelli, dei mariti. Le nobildonne e le loro capricciose figliuole rimanevano condizionate dai maschi e reagivano con severità intransigente ad ogni manchevolezza dei sottoposti, sfogando su di loro i livori e i sentimenti repressi.

Nel ceto popolare, invece, tra maschi e femmine c'era una situazione di maggiore uguaglianza, per il fatto che le esigenze e i problemi pratici della vita quotidiana accomunavano negli impegni comuni di lavoro uomini e donne, giovani ed anziani, e perciò si instaurava tra i due sessi e tra le diverse età un’effettiva parità di doveri e di diritti.



3- Istruzione e analfabetismo

Fino a tutto il settecento nel viceregno non ci fu una scuola di Stato. In Cavallino, centro del vasto feudo, non esisteva nemmeno una scuola comunale o baronale o religiosa. Solamente i signori avevano la possibilità di istruirsi, in quanto che il marchese chiamava in casa un insegnante privato, il precettore, di solito un frate domenicano, a cui veniva affidata l’istruzione e l’educazione dei figli.

L’istruzione si limitava all’apprendimento del leggere, dello scrivere e del fare i conti (solo le operazioni di addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione).

Il primogenito, diventato giovinetto, veniva chiuso nel collegio dei gesuiti in Lecce, per ampliare l’istruzione, per imparare la lingua spagnola, per apprendere le norme del galateo per un corretto comportamento in società; inoltre, il marchese non trascurava di fare addestrare i figli maschi a tirare di scherma e a montare a cavallo; e alle figliole faceva frequentare le lezioni di danza, perché apprendessero ad eseguire con grazia il minuetto in voga.

I metodi pedagogici e didattici erano severi, anzi piuttosto duri; al maestro era consentito dare pizzicotti e tirate di orecchi, battere con la riga sulle mani e con la sferza sulla schiena degli allievi, per indurli a rispettare la disciplina e l’ordine. In ogni aula, lungo la parete di fondo, era sistemato il banco degli asini, dove venivano fatti sedere gli infingardi fannulloni.

I figli dei contadini erano esclusi dall’istruzione. A che scopo studiare e istruirsi, se dovevano continuare il mestiere del padre? Tanto, capitava poche volte nella vita l’occasione di sottoscrivere un documento, e allora per firmare era sufficiente tracciare un segno di croce. Negli affari correnti tra i lavoratori, i quali avevano spiccato il senso della dignità e il rispetto della parola d’onore, bastava una leale stretta dl mano per sanzionare un contratto.

Se qualcuno per desiderio o capriccio, guidato dall’arciprete, si accingeva ad imparare a scrivere la sola propria firma, presto desisteva dall’impresa: a quella mano callosa era più lieve maneggiare la falce che la penna d’oca.

E tuttavia nelle coscienze e nei cervelli di quegli “zoticoni” cominciarono a spuntare i germogli di nuovi valori umani e sociali. Maturava in loro, infatti, la consapevolezza che ogni individuo valeva non per le sue origini, nobili o plebee, ma per le doti spirituali e le qualità morali, per le sue capacità e abilità personali.



4- L’indivisibilità del feudo

Domenico Ascanio Castromediano istituì il maggiorasco, un istituto di origine spagnola secondo cui un patrimonio e un titolo nobiliare veniva dichiarato indivisibile e trasmesso al parente maschio più vicino di grado. Il fedecommesso da trasmettere ai successori della casa Castromediano ammontava a 100.000 ducati d’oro, in perpetuo.

Il marchese di Cavallino e duca di Morciano Domenico Ascanio dalla moglie Maria Isabella ebbe cinque figli: Oronzo Francesco, deceduto ancor giovinetto; Fortunato, l’erede; Giusto, avviato alla carriera religiosa di cavaliere dell’Ordine Gerosolimitano, detto anche dei Cavalieri di Malta; Alessandrina, monaca in Lecce; Beatrice, monaca in Napoli.

Eh, si! Il feudo, la proprietà – come si è detto – non poteva essere suddiviso tra i figli. Il primogenito vivente diventava capo del casato, del feudo e del titolo; i figli cadetti o si sposavano e andavano altrove a costituire una loro famiglia oppure entravano in convento.

Morto don Domenico Ascanio nel 1697 e sepolto a Napoli, dove era vissuto l’ultimo anno, gli successe il figlio Fortunato, che fu 18° barone, 3° marchese e 2° duca. Egli aveva sposato Vittoria Capece, nobildonna napoletana, dalla quale aveva avuto sei figli: Giacinto Maria, l’erede; Giovanni Battista, prete missionario; Maria Antonia e Porzia, sposate a nobili forestieri; Beatrice e Giovanna, entrambe religiose nel monastero di Lecce.

Don Fortunato Castromediano morì nel 1710 a Cavallino e venne sepolto nella chiesetta del convento dei Domenicani.

Gli successe il figlio Giacinto Maria I (19° barone, 4° marchese e 3° duca), che aveva in moglie Maria Francesca Gallone Colmonero, figlia del principe di Tricase, e dalla quale non ebbe figlioli. Il marchese-duca per 58 anni fu a capo del casato e del feudo, il quale fu ingrandito ulteriormente con l’aggiunta nel 1723 delle terre di Fano, portate da donna Maria Francesca come eredità personale.



5- Nobiltà e clero, ceti privilegiati

Alla morte di don Giacinto Maria I, avvenuta in Cavallino nel 1768, il titolo e i beni della famiglia Castromediano sarebbero dovuti passare al fratello Giovanni Battista, ma questi non gli poté succedere, perché già da molti anni era stato ordinato sacerdote e viveva a Bari, dove aveva fondato la Casa delle Missioni, frequentata da un gran numero di allievi che si preparavano all’apostolato.

Quelli erano tempi in cui tanti figli di contadini liberi e di artigiani si avviavano alla carriera ecclesiastica spinti sia dalle difficoltà e dalle incertezze della vita terrena, sia dal desiderio di salire un gradino della scala sociale, sia dall’esigenza di migliorare le condizioni economiche dell’intera famiglia. Nutrendo piuttosto interessi economici, pertanto, i preti difficilmente o raramente adempivano ai doveri derivanti dal ministero sacerdotale, per cui molti ecclesiastici erano ed apparivano più personaggi mondani che testimoni di vita spirituale e religiosa.

Del numero degli ecclesiastici, tra preti e frati domenicani, in Cavallino non si hanno dati precisi; tuttavia dovevano essere molti se si considera la vastità dell’edificio conventuale e se (facendo le debite proporzioni) si pone mente alle seguenti cifre desunte da una statistica del 1712: a Lecce c’erano 36 conventi, 22 abati, 115 preti e 369 chierici, seminaristi prossimi ad essere ordinati sacerdoti.

Nobili, preti e monaci godevano di molti privilegi; non soltanto non pagavano tasse, ma erano autorizzati a riscuotere tributi per conto loro. Verso di essi il popolo aveva rispetto e riverenza e soggezione e su di essi, per la loro opera rispettivamente di comando e di persuasione, il viceré spagnolo faceva affidamento per attuare la sua capillare politica di sfruttamento fiscale.

Secondo i casi, il marchese-duca talvolta esigeva la nomina ad arciprete del tale sacerdote remissivo e accomodante verso il feudatario, talaltra imponeva al vescovo l’allontanamento del parroco o del padre superiore solidale e premuroso nei riguardi della popolazione cavallinese.



6 - Religiosità e devozione

I Cavallinesi godevano del ministero sacerdotale dei preti secolari e dei frati predicatori di San Domenico di Guzmàn, i quali, fatti venire a Cavallino all’inizio del 1600, occupavano il vasto edificio che si prolungava sulla sinistra e sulla destra della chiesetta conventuale.

Gli abitanti di Cavallino avevano sinceri, anche se non profondi sentimenti religiosi. La devozione si manifestava anche negli atteggiamenti esteriori e nei comportamenti usuali. I fedeli avevano la consuetudine di ascoltare la messa anche nei giorni feriali e, proprio per agevolarli in modo che non fossero impediti dagli impegni di lavoro, i sacerdoti celebravano la messa al primo chiarore dell’alba; chi andava in chiesa solamente la domenica era considerato poco devoto.

Sia nella chiesa parrocchiale che in quella conventuale vi era solo qualche scanno tarlato riservato ai vecchi; le donne si portavano la sedia da casa. Gli uomini rimanevano col berretto in testa, si scoprivano alla lettura del vangelo e alla consacrazione. Al momento della consacrazione i presenti non si inginocchiavano, ma uomini e donne si agitavano, si spostavano in cerca del punto idoneo e si alzavano in punta di piedi per riuscire a guardare l’ostia e il calice.

All’antica devozione per la loro Madonna e per S. Oronzo i Cavallinesi, dopo la venuta dei frati, aggiunsero il culto verso S. Domenico, per il quale istituirono una festa solenne religiosa e civile che si celebrava il 4 agosto di ogni anno, mentre i festeggiamenti in onore della Madonna del Monte si tenevano la prima domenica di maggio, prima delle estenuanti fatiche della mietitura e trebbiatura delle messi.

I preti di campagna generalmente erano schierati sempre dalla parte dei signori e, poiché avevano un grande ascendente sugli abitanti del villaggio, intervenivano per persuadere i villani a sopportare il regime, a servire con docilità il padrone, predicando la rassegnazione in questa vita in cambio della suprema ricompensa in paradiso dopo morte.

Ma già ai contadini veniva il dubbio e il sospetto che corressero il rischio di rimanere turlupinati sia in questa sia in quella vita, e cominciarono a non voler accettare una simile evenienza.



7- L’interdetto papale

Durante il marchesato di don Giacinto Maria I Cavallino subì una grave punizione ecclesiastica spirituale.

Com’è noto, la Chiesa di Roma per secoli aveva vantato un suo diritto feudale su tutte le terre dell’Italia meridionale. Essa, tramite le curie vescovili e le abbazie, le parrocchie ed i conventi, incamerava abbondanti decime e ricchi lasciti e regalie. Inoltre i vescovi nelle proprie diocesi esercitavano anche una particolare giurisdizione civile e penale.

Ai primi del sec. XVIII tra il vescovo di Lecce, Fabrizio Pignatelli, che pretendeva di godere di certi privilegi e immunità, e la città di Lecce, che intendeva difendere i propri diritti e prerogative, scoppiò una grave controversia che finì in tribunale. La Regia Udienza emanò una sentenza sfavorevole alla Curia vescovile ed allora si scatenò l’ira di papa Clemente XI, che non esitò a lanciare l’ “interdetto” contro la città di Lecce e i paesi della diocesi, i quali si erano schierati a difesa dei diritti politici del capoluogo.

Dal 1711 al 1719 anche Cavallino dovette subire le severissime conseguenze della punizione papale. Per otto anni l’attività parrocchiale e conventuale rimase interrotta, la chiesa chiusa, non si celebrarono messe ufficiali con la presenza dei fedeli, fu vietato seppellire nella zona benedetta del cimitero i morti, che venivano trasportati di notte senza croce, senza lumi, senza canto di prefiche; furono proibiti gli inni sacri, le processioni, i canti liturgici corali, il suono delle campane; furono interdetti persino alcuni sacramenti: i peccatori potevano confessarsi ma senza poi prendere la comunione, e i matrimoni potevano essere celebrati ma senza la messa e in sacrestia.

I fedeli soffrivano intimamente per la prolungata privazione dei riti religiosi, a cui i sacerdoti cercarono di supplire con il privato e personale conforto spirituale.




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