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La Cappella del Monte, il Camposanto, la Comunità di Cavallino nell'800
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Ritrovamento dell’immagine della Madonna La Cappella del Monte Il Cimitero comunale

La Cappella del Monte

Presi dall’emozione, i Cavallinesi decisero lì per lì di trasformare la grotta stessa in tabernacolo e di lasciare sul posto la chianca dipinta, e, nel frattempo, portarono la lastra con l’effigie della Madonna nella chiesa del paese. Dopo qualche giorno gli esperti muratori cominciarono sul posto le opere di rifacimento e di adattamento della cavità: ma la mattina successiva gli operai trovarono la volta della grotta crollata.

Allora le autorità e gli abitanti del borgo insieme decisero di erigere accanto alla rutta una chiesetta; ma per tre volte accadde stranamente che i tratti dei muri innalzati di giorno, di notte rovinavano. Del fatto si discuteva nelle case, in piazza, nelle bettole, e l’accaduto incuteva un senso di sorpresa e un tocco di timore; comunque il fenomeno rimaneva inspiegabile, e in chiesa i pensieri e le parole umilmente rivolti alla Madonna diventavano sempre più fervidi e accorati.

Una domenica, nella Chiesa Matrice piena di popolo, dopo che l’arciprete ebbe recitato una particolare supplica davanti all’altare della Vergine degli Angeli, appena ebbe finito di cantare in coro il Magnificat, una ingenua e candida fanciulla, come rapita in estasi, declamò: «La Matonna nòscia te la Rutta sine ole la chèsia…, però none a bàsciu alla cupina, ma susu a ll’autina: nsomma la ole frabbecata subbra a llu monte, cussine tutti li passanti la ìtenu e lla salùtanu» (in quei tempi si parlava solamente la lingua nativa).

Difatti, poco distante dalla zona bassa della grotta c’era un balzo di terreno, un dosso alquanto elevato (lu monte, in dialetto), più vicino alla strada per Lecce maggiormente frequentata dai residenti nel casale di Cavallino. Lì, dunque, con il contributo del barone Giovann’Antonio e di tutti i Cavallinesi suoi vassalli, fu eretta una semplice cappella di forma rettangolare, con i quattro muri perimetrali di pietre informi trovate sul posto, con il tetto a due spioventi fatti di canne coperte di tegole, e con il pavimento di lastre di pietra leccese portate dalla non lontana tagghiata de lu Pignu (nessuna meraviglia: tale era l’arte edificatoria del tempo); sopra la mensa dell’altare fu posta e incassata la rinvenuta lastra con la veneranda immagine di Maria Vergine con il Figlioletto.

In quel tempo i buoni cavallinesi veneravano già la Ssunta, la Nunziata, la Matonna de Lu Retu, la Matonna de l’Arcu, la Matonna te li Angeli, la Matonna Ndulurata e la Cunsulata… Come indicare, allora, la Madonna sistemata nella chiesetta nuova costruita susu a llu monte? “Matonna te lu Monte” – venne spontaneo chiamarla - e con il titolo “Madonna del Monte”, “Vergine del Monte” viene tuttora invocata.

Trascorse più di un secolo e mezzo e la cappella del monte rimase abbandonata e nascosta nell’oliveto, tra la strada rustica de li Culummi e la strada rurale de lu Pignu, l’una e l’altra percorse dai soli ellani dei campi e zoccaturi delle cave di pietra. L’umile vecchia chiesetta, stando lì esposta alle intemperie del tempo, si era nel frattempo ridotta proprio in cattivo stato: porta scardinata, muri sdruciti, trave maestra tarlata, canne spaccate, tegole sconnesse, tanto che all’interno penetravano il vento e la pioggia, e i passeri e le rondini vi costruivano i nidi.

Agli inizi del Seicento la baronessa donna Lella Sanseverino, moglie del barone don Ascanio Castromediano, cominciò a pensare di restaurare la chiesetta de lu monte per ravvivare il culto della Madonna, e tutti gli abitanti del feudo erano propensi a offrire il loro contributo. I buoni propositi della pia signora e dei suoi sudditi rimasero allo stato di meritevole intenzione; infatti non furono realizzati nell’immediato e quindi svanirono perché per tre anni consecutivi gli abitanti del casale dovettero fronteggiare diverse e gravi calamità naturali, quali furiosi nubifragi, violente grandinate, siccità prolungate.

Solo l’anno 1629 intervenne il figlio primogenito di don Ascanio, il marchese don Francesco Castromediano, il quale, dietro esortazione della madre donna Lella Sanseverino e della giovane moglie donna Bice Acquaviva, fece abbattere la pericolante vecchia Cappella del Monte e al suo posto fece edificare una chiesetta con pianta più grande e con più solide pareti di piezzi de leccisu squadrati; la copertura, al solito, fu di cannizzi più robusti e di ìmbreci meglio connessi con i coppi. Sul tetto fu sistemata pure una campanella di bronzo. Oltre l’altare principale con la santa immagine della Vergine e del Bambino, un altarino di pietra fu poggiato alla parete di sinistra, eretto a spese di fra’ Tommaso, figlio del marchese, e dedicato a S. Giovanni Battista, raffigurato su una tela.

Altri de’ Castromediano commissionarono a maestri d’arte veneziani una statua della Madonna del Monte; la testa e le mani di Maria e la testa e le mani del Figlioletto furono ricoperte con pelle, che tuttora si conserva chiara e delicata. Da più di tre secoli la statua, jus-patronato dei Castromediano e dei loro successori, è custodita nella cappella di S. Stefano, nel palazzo medievale, e ogni anno, ricorrendo la festa della Protettrice del paese, la statua ricoperta di preziose vesti ricamate in oro viene affidata al Comitato dei festeggiamenti, portata in processione, esposta in chiesa e offerta al culto degli innumeri fedeli devoti.

Comunque, finito il pellegrinaggio e passato il giorno della festa, pure la nuova Cappella de lu Monte, durante il corso dei mesi, rimaneva derelitta e trascurata: soltanto qualche fervente devoto di passaggio vi entrava a venerare la Matonna te lu Monte; persino la mmassara della vicinissima mmassaria te lu Monte raramente vi si recava per deporre un mazzetto di gialle margherite sull’altare di Maria e di Gesù.

Altri motivi concorsero all’incuria della Cappella e della Madonna del Monte: dal 1625 al 1637 i marchesi don Francesco e donna Beatrice si interessarono alla costruzione e alla dotazione del Convento e della relativa Chiesa, due edifici che stavano sorgendo, in paese, sullo stesso luogo e al posto della succitata Cappella di S. Nicola. Gli abitanti del casale dal 1630 al 1720 furono impegnati, oltre le loro possibilità economiche, alla ricostruzione della Chiesa Matrice nuova e più grande, nello stesso sito di quella vecchia piccola e cadente. Don Francesco e donna Bice diedero il Convento a 10 monaci domenicani dell’Ordine dei Predicatori, i quali portarono a Cavallino il culto di S. Domenico di Cuzmàn loro fondatore; inoltre don Fortunato Castromediano, nipote di don Francesco, nel 1703 fece erigere nella Chiesa Madre l’altare dedicato a S. Giovanni Elemosiniere e lo dotò di una buona rendita con l’onere di celebrarvi una messa alla settimana, e, quindi, fu suscitato anche il culto di quest’altro santo forestiero (era il protettore del ducato di Morciano).

Pertanto, il sentimento di venerazione per la Vergine del Monte andò gradualmente intiepidendo nei cuori e nelle menti dei Cavallinesi, e scemò ulteriormente negli anni di scomunica papale (1711-19) allorquando in Lecce e nella diocesi furono chiuse le chiese e interdette tutte le sacre funzioni, le cerimonie e le feste religiose.

Purtroppo, il degrado della Cappella del Monte, dovuto all’abbandono e all’incuria, continuò tuttavia, sicché, in occasione della Santa Visita, nel 1720 effettuata alla cappella da mons. Fabrizio Pignatelli Vescovo di Lecce, nel verbale fu messo in evidenza che: «Poiché la fabbrica della cappella è in stato di avanzata rovina, la campana è stata riposta nella chiesa parrocchiale». Trascorsero alcuni anni prima che i Cavallinesi riuscissero a riparare i guasti del tempo e della trascuratezza, e a riaprire al culto la Chesia te lu Monte.

Il 26 luglio 1776, ricorrenza annuale a Cavallino de “la festa te la Matonna rande”, nella chésia de lu Monte veniva celebrata la messa solenne in onore della Vergine Maria. Improvvisamente si scatenò uno di quei temporali estivi gonfi di nuvoloni scuri pregni di pioggia, lampi e tuoni. Proprio al momento della consacrazione, attraverso il foro per la fune della campana, un fulmine penetrò all’interno e saettante scoppiò con un bagliore accecante e con un fragore assordante. I presenti, anche il celebrante, stramazzarono sul pavimento attoniti, ma nessuno rimase colpito dalla folgore, eccetto un cagnolino che, entrato di soppiatto, si teneva celato sotto le lunghe e ampie sottane della padrona: ciò per significare che i cristiani per benigna intercessione della loro Madonna erano usciti sani e salvi da quel maletiempu.

All’interno della cappella, nella nicchia dell’altare di destra è sistemata un’ampia tela del pittore leccese Luigi Tondi, il quale rappresentò il fatto portentoso con arte non spregevole e con delicati toni di colori (il dipinto che oggi guardiamo è l’incrostazione di sporchi colori sovrapposti nel tentativo maldestro di restauro); a pie’ del quadro, a punta di pennello l’autore stesso spiegò il soggetto del dipinto:

«In questo quadro fatto per ordine di S. Ecc. Don Giacinto Castromediano Duca di Morciano e Marchese di Caballino, e per divozione della Università di detta Terra si rappresenta il gran miracolo della Madre di Dio Protettrice sotto lo specioso titolo della Vergine del Monte, avvenuto il 26 luglio dell’anno 1776, quando essendosi scagliato un orrendo fulmine dentro questa Cappella, piena di popolo, che ascoltava il Santo Sacrificio della Messa che avendo girato con impeto terribile, e percosso col Sacerdote tutti gli altri. Ella da Sovrana e Regina del Cielo e della terra li liberò tutti dalla imminente morte. Tutte le altre miracolose circostanze di sì grande portento sono state espressate nella lapide anche per divozione dei medesimi scolpita a eterna memoria» (della lapide però non è rimasta traccia).

Qualche anno dopo, un altro avvenimento portentoso turbò e scosse la pacifica comunità cavallinese.

Nel 1781 morì il marchese don Giacinto Maria, senza lasciare figli, per cui nella giurisdizione feudale di Cavallino gli successe il fratello don Gaetano Castromediano. Costui, di indole buona, anzi troppo buona e fiduciosa, affidò la conduzione degli affari economici locali ai suoi fattori, i quali avevano il compito di sorvegliare le coltivazioni, valutare le produzioni, presiedere alla spartizione dei raccolti, consegnare i profitti alla Curia Marchesale.

I primi di maggio dell’anno successivo, un fattore morcianese, che aveva ultimato la riscossione dei canoni dovuti dai massari, dai sçiardenieri e dai culoni affittuari, invece di consegnare la grossa somma di ducati a lu patrunu don Gaitanu, la sera di venerdì si recò a Lecce, s’infilò nel Cìrculu te li Signuri e si mise a giocare alla zecchinetta; puntava e perdeva, quanto più la sorte gli era sfavorevole tanto più egli si accaniva nel gioco d’azzardo. E perdette tutto il denaro – la gente diceva: à spallitu cchiui de centu tucati e ss’à ssettatu susu a lla ratìcula. Il fattore infedele passò la notte insonne, inquieto, agitato, non pentito ma spaventato dalle gravi conseguenze: sarebbe stato severamente punito, per lo meno licenziato e, senza nnu sordu, menatu a bàsciu furtuna. All’alba del sabato fu scosso dagli scoppi secchi delle carcasse che annunziavano la diana, cioè l’inizio dei festeggiamenti in onore della Madonna del Monte, e fu ripreso dalla stizza per la grossa perdita, s’infuriò e inveì contro la spurtuna mmalurata.

Già sulla via per il Santuario del Monte si era avviata la processione della Madonna e all’altezza della Villa sfilavano prima i confratelli della Congrega indossanti il lungo camice bianco e la mozzetta celeste, poi le verginelle con la bianca veste di organdis e con il velo di tulle lungo fino alle caviglie, poi i preti del Capitolo e i monaci domenicani.

Poi d’un tratto da dietro un cantone apparve il fattore disperato, spianò il fucile, prese di mira la statua della Vergine Maria e tirò il grilletto: la cartuccia scoppiò fortuitamente dentro l’arma stessa frantumando la canna e squarciando le mani e il petto del sacrilego, il quale, dopo qualche ora, dissanguato morì, per sua buona ventura chiedendo perdono alla Madonna del Monte.

L’episodio fu riprodotto da un contemporaneo pittore anonimo in un grazioso quadro, alla cui base una scritta (ormai abrasa e mutila) spiegava in latino «…Mariae Virginis sub titulo Montis… ob devotionem et memoriam miraculi accepit – A. D. 1782». Sino a qualche tempo fa il dipinto si poteva vedere appeso alla parete della Cappella del Monte; ora non c’è più,… trafugato da qualcuno… illuso.

Cacciati i Borboni, sul trono di Napoli salì il re francese Giuseppe Bonaparte, il quale nell’agosto del 1806 emanò il famoso editto dell’abolizione del regime feudale e dello scioglimento degli Ordini religiosi, per cui i Castromediano persero qualsiasi autorità e privilegio e si ritrovarono spogliati di tutte le prerogative di unici legittimi Signori del Casale di Caballino. Anche i monaci domenicani furono costretti a lasciare Cavallino e ad abbandonare il loro convento; sicché anche il culto di S. Domenico, da allora, cominciò a intepidire mentre prese a ravvivarsi giustamente l’antica devozione verso la Matonna te lu Monte, e il pellegrinaggio annuale al suo santuario riprese a svolgersi con sempre maggiore concorso di popolo supplice e devoto.

Dopo alcune guarigioni straordinarie, incomprensibili persino al Medico Cerusico Condottato, ma dalla pietà popolare devotamente attribuite all’intercessione della Madonna, divennero numerose le richieste di grazia e le promesse di riconoscenza alla Protettrice, e i voti di ringraziamento erano accompagnati da generose offerte in denaro e da doni di valore quali collanine e braccialetti d’oro, orecchini con perle, cuori d’argento; col tempo tali ex voti, appesi alla statua, finirono per coprire l’intero manto della Vergine del Monte.

Terminati i festeggiamenti, la statua veniva riportata sul palazzo per essere conservata nella cappella di S. Stefano (come si continua a fare oggigiorno), e i preziosi ex voto, che erano di proprietà della Chiesa Matrice, venivano presi in consegna da un sacerdote scelto dal Capitolo parrocchiale, che ne diventava ufficialmente responsabile. Inoltre il consegnatario aveva l’obbligo di presentare il rendiconto dei donativi anche a richiesta del Consiglio Civico (il che avvenne nel marzo del 1850), il quale, vantando il jus patronato sulla Chiesa Matrice, «aveva il dritto di vedere cioè quali somme offrano le offerte fatte in ogni anno da vari cittadini alla Vergine del Monte Protettrice del sud.to Comune.»

Il Comitato delle Feste del biennio 1857-59, allo scopo di interrompere la tradizione di rivolgere preghiere, di chiedere grazie, di offrire doni votivi alla Statua della Vergine che – come sappiamo – era jus-patronato dei Castromediano e veniva conservata nella cappella del loro palazzo, avanzò la proposta di acquistare una statua nuova di cartapesta, che fosse di proprietà della Chiesa parrocchiale e dei cittadini.

Il duca Sigismondo Castromediano, che da nove anni era costretto nelle carceri borboniche, fu informato della questione e se ne rammaricò moltissimo. Infatti, nella lettera inviata il 23 settembre 1857 al sacerdote don Pasquale De Matteis, così si espresse: «… Oh quanto dolore mi ha fatto sentire questa novità; pure mi vi sottoporrò, se sarà volere di Dio e della Vergine, e se sarà fatto colla annuenza di tutto il paese, che io amo e che mi vide nascere.»

Poco tempo dopo, papa Pascali poté rassicurare l’amico prigioniero, comunicandogli che la proposta del Comitato era stata contrastata e rifiutata dalla maggioranza del Clero paesano e degli affezionati Cavallinesi.

Rimase a lungo nel ricordo de li caδδinari figghi te muli, de li lezzeneδδari le fìmmene bestie, de li leccesi mangia cozze, la festa della Madonna del 1858. L’anno prima, il Decurionato in seduta straordinaria aveva scelto, per il successivo biennio, dei buoni cittadini deputati alla preparazione dei Festeggiamenti in onore della Protettrice. La lista fu inviata al Sig. Giudice del Circondario di Lecce il quale, espletate le dovute indagini e avute le favorevoli informazioni sui singoli, approvò l’elenco per intero.

Il Comitato risultò costituito come segue: 1 D. Salvatore de Pandis Sacerdote - 2 Raffaele Baldassarre - 3 Pasquale Forcignanò - 4 Pietro Forcignanò - 5 Mariano Passabì - 6 Vincenzo Mele - 7 Vincenzo de Matteis fu Ippazio – 8 Oronzo Totaro fila fu Dom.co – 9 Cosimo Gigante – 10 Luigi Longo – 11 Giuseppe de Matteis di Vito – 12 Raffaele de Matteis fu Ippazio – 13 Nicola Totaro ammassaro – 14 Giusto Donato Totaro ammassaro.

Essi presto si attivarono e, oltre alla sottoscrizione meticolosa casa per casa e alla ricca colletta di oblazioni in denaro, raccolsero anche copiose manate di cereali e di legumi; una domenica esposero in piazza i sacchetti delle derrate alimentari e le vendettero a un prezzo piuttosto caro, comunque conveniente ai compratori, persuasi che, a chi mangiava li pesieddi te la Matonna o li pasuli te la Matonna, lu casu te la Matonna, nuddu malannu ni putìa capetare.

Quella del maggio 1858, oltre che per la rinomata banda e per due fuochi pirotecnici, fu una festa memorabile per la parazione noa, cioè per le luminarie non a lucerne a olio, ma ad acetilene a carburo che – disse la gente - rischiararono la piazza cambiando a meraviglia la notte a giorno.




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