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La Cappella del Monte, il Camposanto, la Comunità di Cavallino nell'800
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Strada de lu Calò (via Crocifisso)

Entro l'abitato primitivo di Cavallino la via principale era la cosiddetta strata te lu Calò, perché era la più frequentata dai pedoni, dai carri e dalle greggi; aveva inizio dal margine basso dell'abitato, portava alla cappella della Madonna dell'Arco e saliva fino all'Arcu de lu Calò, una delle quattro porte del paese.

Percorso il primo breve tratto adiacente alla residenza dei Castromediano, a mano mancina all'angolo con via Margherita di Savoia si apriva una piccola corte unifamiliare che dava accesso alla bella dimora dei De Rinaldis dell'Aquila (la casa da poco tempo è stata esemplarmente restaurata) e in essa abitò per primo il dottor fisico don Oronzo (inizi del '700). Il figlio di costui, don Pippi l'avvocato, vi dimorò per poco, perché, avendo osato corteggiare, lui civile, la nobile marchesina donna Titina, i Castromediano lo avversarono e lo costrinsero a trasferirsi a Lecce; poi don Giuseppe fu perseguitato politico anche dai Borboni finché, scarcerato, venne nominato Presidente del Tribunale Provinciale di Lecce. Pure l'altro figlio (o nipote?) don Oronzo, un prete molto dotto e poliglotta, fu costretto a lasciare presto la casa, ma per questione di una donna, e visse a lungo in lontane città quale precettore di giovanetti in case signorili; morì a Castrì nel 1816 ospite dei signori Vernazza.

Nel davanti dell'abitazione dei De Rinaldis un ampio spazio rettangolare si allargava lungo il prospetto dell'antica dimora baronale, dov'era l'ingresso principale.

In questa area, dirimpetto al maniero si affacciavano le abitazioni angolari con corte del sacerdote don Oronzo Ingrosso (1795) e del nipote Oronzo Nicola Ingrosso, un agricoltore, questi, assennato e accorto tanto da essere nominato sindaco di Cavallino per due bienni consecutivi, dall'agosto 1850 al luglio 1854; poi, accanto, la casetta del contadino Vincenzo Murrone lu Senzaquiδδa, sulla cui porta d'ingresso aveva sistemato, ben visibile su in alto,... come insegna di "sagnatore" una lastra di pietra recante scolpito da lui stesso a bassorilievo un avambraccio sopra una bacinella, preparato per il salasso.

Vincenzino era un tipo alquanto originale: avendo nel suo campicello un capace invaso d'acqua (lacquaru), tirò fuori dal comò di casa sua un cassetto, lo impiastricciò di pece nera e ne ricavò una barchetta, idonea - affermava lui - per andare fino in Albania; però mancava l'àncora e allora lu Vicenzinu decise di andàrsela a costruire nella bottega di mèsciu Realinu Sanapu ricavandola da un ceppo stagionato. Ma quando il figlio sapientino, chiamato papa Cesare perché da ragazzo era stato seminarista, gli spiegò e gli dimostrò scientificamente che un'àncora di legno non calava mai a fondo, il vecchio s'infuriò talmente che con l'accetta sfasciò la sua navicella.

Proseguendo per la via de lu Calò, poco oltre sulla destra si apriva la corte de la Taranta, così chiamata da quando - secondo la voce popolare - un ragno nero screziato di giallo morsicò una giovane figlia dei Miccoli Santulequeri, la quale, contagiata dal veleno della tarantola, si ammalò del male di S. Vito e, dopo aver ballato convulsamente più volte al ritmo di un tamburello, si liberò dell'isterìa soltanto dopo essere andata in pellegrinaggio a Santu Paulu de Galatina e dopo aver bevuto sette sorsi dell'acqua miracolosa della cisterna veneranda.

Più in là c'era la cappella di S. Maria dell'Arco edificata verso il 1650; poi si raggiungeva la bislunga corte de lu Rizzu, così indicata - non si sa bene - o perché vi era una tana di riccio o perché vi abitava la famiglia Rizzo, la quale allevava in casa un riccio che distruggeva topi e scarafaggi (surgi e malote). Nella corte adiacente si entrava per un àdito ad arco e si presentavano l'abitazione dei De Matteis distinti con il nomignolo Piritosu e la casupola di mèsciu Peppantoni lu cconzalìmmure.

Svoltato il cantone de la Toti e proseguendo per la salita, all'angolo e in un seminterrato c'era il forno de lu Padula, che cuoceva solo pane dalle massaie fatto in casa (freseδδe, purecasci e pescialette). Verso la fine del '700 alcuni nuclei familiari della gente de li Iachi, parenti di massaro Iacopo Giannone, lasciarono le masserie Alacca e Verardi, costruirono le proprie dimore su diversi suoli ancora liberi di questa via e si stabilirono in paese.

Sull'ultimo tratto della strada, a sinistra, si apriva un'altra corte, precedentemente abitata dalla famiglia Longo e conosciuta come curte de lu Cicìgliu e dopo chiamata curte de li Saziu, dal cognome degli inquilini successivi. Superato un altro cortiletto, si raggiungeva attraverso un'apertura sul ciglio della via il trappeto ipogeo di proprietà dei marchesi, da qui dopo venti passi la strada giungeva alla porta de lu Calò.

Oltrepassato l'arco, la via con il nome di strata de lu Crucefissu portava all'altro più importante trappeto ipogeo dei Castromediano (oggi proprietà dell'avv. P. Forcignanò); anche questo frantoio oleario venne approntato nel '700 e rimase in attività per tutto l''800: esso era dotato di due vasche molitorie, di sei presse alla calabrese e di due torchi alla genovese, e conteneva numerose celle-deposito, gli alloggi del capo-ciurma (lu nachiru) e dei frantoiani (li trappetari), il focolare e la stalla. (sarebbe interessante e bello restaurarlo riportandolo all'antico stato strutturale e aprirlo ai visitatori).




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