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Strada dei Murroni

A metà pendio, dal fianco sinistro della strada de lu Calò si staccava una seconda via traversa che si prolungava quasi diritta verso ovest. All'inizio di questa antica strada, a destra erano le primitive case della gente dei Murroni; questi diedero il proprio nome alla via perché furono tra i primi cavallinesi a riscattarsi, verso la metà del '700, dal vincolo di vassallaggio feudale, diventando liberi possidenti e mantenendo nell'àmbito della comunità paesana sempre un livello di preminenza.

Dirimpetto alla corte unifamiliare dei Murroni si apriva la corte plurifamiliare de le Marange, così indicata perché al di là della muriccia di recinzione si ergevano tre rigogliosi alberi di cetràngoli (marange), qui erano l'abitazione di Antonio Longo, nel 1810 sindaco di Cavallino, e la dimora della famiglia dei Marchiello, da cui provennero l'arciprete don Francesco Saverio e il nipote don Paolino, parroco dal 1850 al 1866 e pure maestro di scuola elementare incaricato annualmente.

Poco oltre, a destra si allargava la curte de lu Monte, la parte più alta del dosso roccioso, nella quale si affacciavano la casa del contadino Ippazio Nicolì nominato Pati Senzacarcagne, la casa dei Caricato del ramo Sçattapignate, quella dei Negro del ramo de li Mulenari; confinante era la dimora di Pasqualino Ciccarese lu Pasularu, l'unica abitazione su questa via, allora, a due piani: giù la stalla-rimessa e sopra l'appartamento.

Seguiva adiacente la piccola curte de lu Sçuppettola, di proprietà di Maestro Gala, i primi del '900 venuto da Monteroni e assunto dal Consiglio Civico quale primo insegnante titolare della pluriclasse elementare maschile; la corte permetteva l'àdito in un giardino coltivato a rari arbusti di sorbi (meδδe), di giùggioli (sçìsçiule) e di corbezzoli (rùsciuli); nel mezzo dell'orticello si ergeva un trullo con le pareti intonacate, e in un angolo si notava una incavatura nel terreno.

Un giorno del 1936 il contadino Salvatore Carlà, detto Totu Bellaluna, si recò ad incontrare Giovanni B. Baldassarre, detto Giuanninu Pagghiara, il quale era divenuto padrone de lu Sçuppettola avendo preso in moglie Vincenza Gala (donna Nzina) figlia del defunto don Antonio Gala. Totu Bellaluna gli raccontò che egli aveva sognato di un'acchiatura, di un tesoro nascosto in un punto preciso del giardino Sçuppettola e chiese il permesso di entrarvi e cercare; lu patrunu Giuanninu acconsentì e si dichiarò disposto ad accompagnare lu Totu di persona.

Il giorno seguente i due si recarono sul posto e con zappa, piccone e vanga si misero a sterrare, lì, nell'angolo, e successivamente vennero fuori un primo gradino, poi un secondo e poi un terzo ripiano. Percezione paranormale? Il fatto fu che i due, trepidanti, proseguirono lo scavo e trovarono una tomba ricavata nella roccia; frugando nella polvere rinvennero una grossa spilla di metallo sulla cui borchia erano incisi dei segni di scrittura loro ignota, probabilmente messapica. Non sapendo come sfruttare venalmente il prezioso reperto, Giovanni e Salvatore portarono la fìbula al Segretario della sezione del Partito Fascista di Cavallino, don Luigi Trotta, il quale ricompensò gli scopritori con venti lire e trattenne il monile, assicurando che lo avrebbe consegnato al Museo di Lecce; ma dell'oggetto presso il Museo non c'è traccia.

La strada dei Murroni proseguiva leggermente in discesa e sul lato destro si allineavano la casa dei Bellaluna (oggi in corso di rispettoso restauro) e diversi cortiletti e affacci delle case dei Monìttola soprannominati Stafalari: tra essi il possidente Donato Monìttola, dal 1815 al 1819 sindaco di Cavallino.

Al termine, questa strada si congiungeva con l'estremità della viottola dei porcili, ed entrambe venivano bloccate a questo punto dal muro di recinzione della villa marchesale; proprio alla cantonata erano le case, ancora oggi in piedi, del possidente Santo Monìttola, chiamato don Santu Racusèu perché ricco avaraccio.

Il terreno compreso tra via dei Murroni e via dei porcili era denominato Fataru; in esso non molti anni fa, mentre si scavavano le fondamenta per una nuova abitazione, fu rinvenuto un prezioso vaso ansato di bronzo, che il proprietario del suolo, Vincenzo Ciccarese, consegnò al Museo archeologico di Taranto ricevendo un compenso.




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