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Cavallino attraverso i secoli
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Dal martirio di Otranto
all'occupazione spagnola
Dalla costituzione del viceregno
al sorgere del marchesato
Cavallino sotto il dominio
del marchese Don Francesco

PARTE PRIMA: LA BARONIA

Capitolo settimo

DALLA COSTITUZIONE DEL VICEREGNO AL SORGERE DEL MARCHESATO



1- Cresce l’alterigia dei baroni...

I sovrani spagnoli nel viceregno svolsero, così come avevano fatto gli aragonesi, una politica accentratrice mirante a rafforzare l’autorità dello Stato a scapito del potere autonomo dei feudatari; ma, mentre i re aragonesi avevano avuto il consenso delle città e l’appoggio del ceto borghese, i viceré spagnoli sollecitarono la collaborazione della nobiltà e i signori furono pronti ad offrire i loro servigi.

In cambio del sostegno i baroni non ricevettero ulteriore forza e prestigio, ma solo reputazione pomposa e illusoria, poiché in realtà la loro nuova condizione sociale era solamente vistosa e velleitaria mentre scemava il loro effettivo potere politico, che inavvertitamente andava a concentrarsi nelle mani del viceré spagnolo, il quale risiedeva a Napoli, governava secondo le direttive del re di Spagna e considerava l’Italia meridionale come terra di sfruttamento.

I nobili per alterigia e presunzione chiedevano e ottenevano, naturalmente dietro pagamento, la promozione dei titoli nobiliari, sicché i baroni diventavano conti o marchesi e poi duchi o addirittura principi. Concedendo titoli altisonanti e onori fastosi, il re legava strettamente a sé i baroni, i quali, riconoscenti, aiutavano il sovrano a respingere dalle province napoletane i tentativi d’invasione dei nemici esterni, gli stavano al fianco nelle ribellioni delle plebi affamate, lo seguivano in tutte le imprese militari anche fuori dall’Italia. E la Spagna barocca, mentre con lo sfarzo gonfiava di boria i baroni, li svuotava di ogni autorità e prerogativa feudale, così che da signori autonomi li riduceva a vassalli del re.



2- ... e diminuisce il loro potere

Nel 1507, a riprova di quanto s’è detto, i baroni leccesi furono costretti ad accettare un’altra imposizione politico-amministrativa che evidentemente diminuiva le loro prerogative di potere e di autonomia e i loro diritti feudali.

Il giorno 26 settembre i signori Luigi Castromediano, G. Antonio de Noha, Francesco de Monteroni, Nicola de Noha, Antonello de Rosa, Antonio Corso e Federico Prato furono invitati a sottoscrivere uno strumento ufficiale, in cui si professavano consensienti a riconoscere all’Università di Lecce la facoltà di nominare ogni anno nei feudi (tramite il Capitano) i Camerlenghi, scegliendoli tra i vassalli dimoranti in ciascun casale. Il camerlengo aveva il compito di custodire e amministrare per conto del fisco i beni e le finanze di pertinenza della Regia Corte (prima tale incombenza spettava al barone) e di controllare i criteri ed i comportamenti degli esattori nella riscossione delle imposte e delle tasse.

Il primo a firmare la convenzione, ma molto a malincuore, fu proprio Luigi II, il quale, di suo pugno, aggiunse: “Ego Loysius de Castromediano baro Caballini accepto la presente peticione et mano propria me subscripsi” (Libro Rosso di Lecce - Subscriptiones n. 88).

Nei tempi passati se sorgeva una lite tra cittadini leccesi e uomini del casale e l’oggetto del contendere si trovava nel territorio di Cavallino, spettava al barone comporre la vertenza in prima istanza.

Ma il 7 agosto del 1509 il viceré ordinò al marchese della Padula, governatore di Terra d’Otranto e di Bari, di fare osservare d’ora in poi il diritto accordato ai Leccesi di essere convenuti davanti al Capitano e non più giudicati dal barone, il quale conservava la giurisdizione delle cause civili solo sui suoi vassalli.



3- La battaglia di Avetrana

Durante il primo ventennio di dominazione spagnola l’Italia meridionale non ebbe pace, anzi fu mantenuta continuamente in stato di allarme a causa dei reiterati tentativi fatti dal re di Francia per impadronirsi delle province italiane.

Le genti salentine si divisero ancora in partito filofrancese e in partito filospagnolo. I vassalli dei signori di Cavallino furono schierati sempre dalla parte degli Spagnoli.

Appunto per questo nel 1523 il barone Luigi II Castromediano, per le sue benemerenze di valore e di fedeltà, fu autorizzato dal viceré ad acquistare la rimanente quota parte del feudo di Morciano, di proprietà della famiglia Capece (la ratifica regia della reintegrazione definitiva di detto feudo avvenne successivamente, in data 10 giugno 1632). Per di più nel 1532 tramite Geronima, vedova di Nicolantonio Lubelli, il casato dei Castromediano venne in possesso del feudo di Zollino e di parte di quello di Nociglia.

Nel 1528, perdurando ancora il conflitto franco-spagnolo, numerosi giovani cavallinesi, al comando del 12° barone, Sigismondo I Castromediano, figlio di Luigi II, parteciparono alla battaglia di Avetrana, comportandosi valorosamente. I1 combattimento fu aspro e durò per molte ore; alla fine i soldati cavallinesi si ritirarono sconfitti dalle truppe francesi, in aiuto delle quali erano giunti altri rinforzi.

I nostri soldati, sbandati, fecero ritorno a Cavallino, invece il loro comandante si rifugiò a Gallipoli, che poco dopo venne occupata dai Francesi. Sigismondo I fu riconosciuto, arrestato e trascinato nel carcere di Oria. La seconda moglie Dianora Messanello, con l’aiuto dei giovani vassalli cavallinesi, corrompendo con il denaro le guardie di custodia, riuscì a fare evadere il marito e a farlo tornare libero a Cavallino.

Intanto a Lecce i filospagnoli si organizzavano per radunare forze nuove da lanciare contro i Francesi; a capo di essi c’erano il barone Sigismondo i e suo fratello Tommaso.

Un altro Castromediano, Giovan Battista, dal 1532 al 1552 fu vescovo della diocesi di Lecce. Egli, avendo ereditato la Curia vescovile gravata da pesanti debiti, la liberò grazie ad una generosa contribuzione da parte di suo padre, il barone Sigismondo.



4- Tornano i predatori turchi

Lungo le coste della Dalmazia e dell’Albania, proprio dirimpetto alla Puglia, erano annidati in covi ben nascosti i pirati slavi e saraceni, e le acque del Canale d’Otranto venivano solcate in ogni direzione dalle agili e veloci navi dei corsari dalmati e musulmani, i quali di frequente visitavano le coste salentine indifese per compiervi razzie.

Nel 1537 i Turchi tornarono ancora a spargere terrore sul nostro litorale, da Santa Maria di Leuca fino a Brindisi, non con l’intento, questa volta, di crearvi una testa di ponte per una nuova invasione, ma allo scopo di compiervi scorrerie, rapine e saccheggi.

Il Barone Giovanni Antonio II Castromediano, il successore di Sigismondo, corse con i suoi vassalli e si unì alle truppe degli altri feudatari; quando furono pronti per la battaglia assalirono i nemici con tale impeto presso il casale di Tricase, che i predatori furono tutti massacrati.

Non molto dopo i Brindisini, vistisi minacciati da altre navi turche che avevano bloccato il porto, chiesero aiuto. Il viceré Pedro de Toledo dalla città di Andria inviò l’ordine che gli ottocento armigeri calabresi stanziati e accasermati in Lecce accorressero a Brindisi. I cittadini leccesi, temendo di rimanere indifesi, insorsero e impedirono la partenza dei soldati, per cui il viceré minacciò severissime punizioni contro la città e i suoi amministratori. Dopo una lunga e animata assemblea il sindaco e i notabili leccesi all’unanimità designarono e quindi spedirono immediatamente ad Andria il barone cavallinese Giov. Antonio II, il quale con la sua eloquenza abile e persuasiva ottenne il perdono per la città di Lecce.



5- Opere di difesa

Nel 1539 venne a Lecce l’imperatore Carlo V, il quale pose la prima pietra per la costruzione dell’imponente castello, ancora ben saldo nella sua gran mole. Inoltre lungo le coste della penisola salentina fece innalzare una ottantina di torri di avvistamento e di difesa contro le incursioni dei predatori saraceni e dei pirati slavi.

In onore dell’imperatore e a ricordo della sua venuta i Leccesi, a spese della popolazione e con il tributo forzoso dei casali, eressero un arco di trionfo di pietra leccese, ora conosciuto con il nome di “Porta Napoli”. Anche le masserie furono fortificate, racchiudendo entro robusti muraglioni le abitazioni del massaro e dei “cumenancerii” (i salariati fissi), il magazzino e il deposito, le stalle e l’ovile, la cisterna e il forno.

Verso la fine del secolo il pericolo turco cessò definitivamente. Infatti, nell’anno 1571 nelle acque di Lepanto (Grecia) si combatté la celebre battaglia tra la flotta turca e quella cristiana; dopo aspri scontri, arrembaggi, speronamenti, fughe e inseguimenti, verso sera l’armata turca fu sbaragliata completamente e l’impero ottomano subì un tale colpo al suo prestigio, che più non si risollevò dalla terribile disfatta.

Alla spedizione militare parteciparono tutti i giovani nobili italiani, tedeschi e spagnoli con i loro vassalli. Ebbene, anche il piccolo borgo di Cavallino diede il suo contributo mandando i suoi uomini; vi presero parte, infatti, i cadetti Ottavio e Fabio Castromediano, che si comportarono valorosamente e, purtroppo, trovarono la morte sulla nave colpita da una bordata nemica e colata a picco.



6- Sviluppo del casale e del feudo.

L’abitato di Cavallino verso la metà del 1500 riprese ad ampliarsi, scendendo man mano giù dal “Calò” verso la “cupina”, la parte più avvallata del territorio, badando i Cavallinesi a non fabbricare le case nella zona soggetta ad allagamento durante le abbondanti piogge. Per questo Cavallino, il solo fra tutti i paesi del circondario, si trovò ad avere in centro un larghissimo spiazzo; il paese, dunque, ha una piazza tanto vasta non per deliberata e specifica deliberazione urbanistica, ma per necessità ambientale naturale. Per avere un’idea delle dimensioni del nostro paesetto durante il XVI sec. teniamo presenti questi dati: in Cavallino nel 1532 si contavano 82 fuochi (focolari, vale a dire famiglie); considerato che in quei tempi nei casali rurali la media dei viventi era di cinque persone a famiglia, si deduce che il paese contava 410 abitanti; nel 1543 c’erano 96 fuochi, quindi 480 anime; nel 1556 i fuochi erano saliti a 116 e gli abitanti a 580; infine, nel 1595 i fuochi calarono a 113 e le persone residenti a 565.

Il 1565 il barone Giovanni Antonio II Castromediano fece erigere al primo piano del suo palazzo una piccola ma graziosa cappella gentilizia, poi privilegiata da papa Pio IV.

Quindici anni dopo, il successore Sigismondo II, suo figlio, acquistò per 9.300 carlini d’argento dal dottor G. Antonio Pandolfo il feudo di Ussano, una tenuta tra Cavallino e Galugnano.

Ai pochi servi già legati ai poderi di Ussano ed ai braccianti che vi si trasferivano, il barone imponeva il contratto tipo vigente negli altri suoi feudi.



7– Il contratto feudale di colonia

Il feudatario cedeva in fitto ai coloni le terre ricevute in beneficio. I coloni si impegnavano con promessa solenne e con contratto rinnovabile di rimanere sulla terra da un minimo di venti a un massimo di ventinove anni. Il contratto contemplava il pagamento di un censo, cioè di un tributo in denaro abbastanza lieve, dato che la moneta circolante era assai scarsa. Pesanti, invece, erano gli obblighi. Per esempio, i coloni dovevano consegnare al barone un terzo del frumento e della segala, un quanto di tutti gli altri cereali e dei legumi, la metà dell’uva e delle olive.

Gli agenti del barone, i fattori, sorvegliavano le coltivazioni e i prodotti agricoli e soprintendevano alla spartizione del raccolto, prendendo in consegna quanto era dovuto al signor padrone. I coloni erano pure tenuti a servirsi del mulino, del frantoio, del palmento del barone e a pagare per tali usi una forte tassa.

Inoltre, i coloni “erano tenuti” a corrispondere i “donativi volontari”: dieci uova, due capponi o un tacchino, una forma di pecorino fresco e un vasetto di miele a Natale: un agnello o un capretto, dieci uova, cinque candele lunghe un braccio e una forma di pecorino stagionato a Pasqua; una gallina vecchia ogni qualvolta la signora baronessa partoriva.

I vassalli temevano assai l’imposizione della taglia, cioé la consegna di una determinata quantità di lana e cotone in fiocchi, di tele e panni tessuti in casa, in occasione di matrimonio o di monacazione delle figlie del barone. Infine il contratto fissava quanti giorni la settimana i villani erano obbligati a lavorare nel manso signorile per la mietitura, la vendemmia e la raccolta delle olive, quanti giorni dovevano dedicare alla manutenzione delle strade, alla costruzione di opere pubbliche, all’ampliamento o al restauro del palazzo baronale; tutte opere da prestare gratuitamente.



8- Verso la signoria assoluta

Nel corso del sec. XVI i baroni quanto più di autonomia e di potere avevano perduto nei confronti del sovrano tanto più di alterigia e di sfrontatezza avevano acquistato nei riguardi dei loro vassalli. L’autoritarismo dei feudatari di Cavallino si era accresciuto specialmente con Giovanni Antonio II, 13° barone con Sigismondo II, 14° barone, e soprattutto con Ascanio Castromediano, 15° barone. Questi, che si era unito in matrimonio con Aurelia (affettuosamente detta Lella) della nobilissima famiglia dei Sanseverino, era uomo coraggioso e altero, ossequiente e riverente verso l’autorità regia e nello stesso tempo geloso dei privilegi feudali. Egli instaurò un vero e proprio personale dominio nel suo feudo, amministrando e governando i sudditi con mano abile e con regime energico da signore assoluto.

Affinché i suoi modi d’agire e di comportarsi non fossero reputati come soprusi, Ascanio agitava il proposito di farsi riconoscere dai sudditi le nuove prerogative; sentiva il bisogno di farsi legittimare la nuova condizione autoritaria. Ma questo modo e questa forma di legittimazione popolare parvero subito pericolosi in quanto che, se si ammetteva il principio che il riconoscimento del potere poteva derivare dal popolo, si doveva pure accettare che i sudditi, in certe circostanze ed in certe situazioni e per fondati motivi, potevano anche annullare tale potere. E questa eventualità il feudatario non poteva assolutamente condividerla e accettarla.

Era meglio, quindi, cercare la legittimazione formale da parte di un’alta autorità religiosa o politica, a costo pure di divenirne sottoposto a certe costrizioni e di sottomettersi a certi obblighi, come per esempio all’adoa, un solido tributo in sostituzione del servizio militare, e al relevio o rilievo, un altro tributo per il rinnovo dell’investitura del feudo.

Il consiglio di famiglia esaminò a lungo la questione del legittimo riconoscimento. Finalmente fu scartata l’idea di rivolgersi al Papa di Roma, somma autorità religiosa, e fu deciso di inoltrare istanza al monarca di Spagna.

In verità da sempre i Castromediano avevano nutrito sentimenti laici e manifestato indole ghibellina; meriti particolarmente meritevoli da far valere in Vaticano non ne avevano; l’aver avviato alla vita religiosa, spesso costringendoli, alcuni figli, fattisi chi prete, chi monaco o monaca, e qualcuno vescovo, non costituiva un sufficiente motivo degno di speciale considerazione e di merito. E poi il potere papale era incombente, soffocante e oltretutto duraturo.



9- Una schiera di valorosi guerrieri

Nei riguardi della monarchia spagnola, invece, i meriti acquisiti dai Castromediano erano molti e nel contempo si accrescevano. Infatti, Sigismondo II, comandante di uno squadrone di cavalleria, per tutto il 1575 difese validamente le spiagge salentine dagli attacchi dei corsari, meritandosi un elogio solenne da parte del re Filippo Il. Ottavio e Fabio, che già avevano servito l’imperatore Carlo V, trovarono poi la morte a Lepanto.

Giovanni Antonio, figlio secondogenito di Sigismondo e, dunque, fratello del barone Ascanio, nel 1597 dal conte d’Olivarez fu nominato comandante degli archibugieri nel 3° reggimento di don Alessandro de ‘ Monti suo zio; antico guerriero, si comportò tanto eroicamente nella lotta contro i musulmani moriscos in Spagna, oltre Oceano e in Portogallo, che Filippo III lo insignì dell’Ordine Cavalleresco di Calatrava, un ‘onorificenza tra le più prestigiose di Spagna; nel 1606 perse la vita combattendo nelle lontane Fiandre (Belgio). L’anno dopo nelle stesse Fiandre cadde ucciso in combattimento suo fratello Marcello, alfiere e capotruppa nella compagnia di suo zio don Camillo de ‘ Monti. Entrambi poi ebbero degna sepoltura a Bruxelles.

Ancora nelle Fiandre andarono a combattere, nell’interminabile guerra politico-religiosa proseguita da Filippo III, Giovanni Luigi, capitano degli archibugieri, e i suoi due giovani figli Pietro Antonio e Giovanni Battista, entrambi morti in battaglia, il primo nelle Fiandre e il secondo nell’assedio di Casale, in Piemonte.



10- Il meritato riconoscimento

Frattanto anche Francesco Castromediano, il giovane figliolo di Ascanio, si stava distinguendo per notevoli atti di valore, militando al servizio del re di Spagna.

Ma lo stesso Ascanio, prima di ereditare la baronia di Cavallino, aveva combattuto con il grado di cadetto di cavalleria in favore degli spagnoli e contro i francesi, meritandosi da parte del conte di Lemos la promozione al grado di capitano di compagnia (1600).

Il barone Ascanio, dunque, proprio al sovrano spagnolo inoltrò la supplica con cui invocava per sé e per i suoi successori il riconoscimento della potestà signorile sul feudo avito di Cavallino e la concessione di una più importante qualifica e più prestigiosa dignità nobiliare.

La sua domanda, corredata da tante utili testimonianze rimase a lungo all’esame dei dignitari di corte di Madrid e Ascanio morì senza vedere realizzato il suo desiderio.

Soltanto nel 1628, quando ai notevoli meriti acquisiti dagli avi si aggiunsero quelli per le recenti straordinarie imprese guerresche di Francesco, il re Filippo IV di Spagna non esitò a concedere al casato dei Castromediano la dignità e il titolo di Marchese.




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