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Cavallino attraverso i secoli
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Dalla costituzione del viceregno
al sorgere del marchesato
Cavallino sotto il dominio
del marchese Don Francesco
Dall'apogeo del feudo
alla fine dei viceregno

PARTE SECONDA: IL MARCHESATO

Capitolo ottavo

CAVALLINO SOTTO IL DOMINIO DEL MARCHESE DON FRANCESCO



1- Una festa memorabile

Verso la metà del 1600 il casato dei Castromediano raggiunse il massimo grado della sua floridezza e della sua estensione arrivando a possedere i feudi di Cavallino, Tafagnano, Vermigliano, Cerceto, Morciano, Sanarica, Ussano, Zollino e parte del territorio di Nociglia.

Certamente don Francesco Castromediano segnò l’epoca più splendida della sua Casa. Egli fu valente cavaliere, esperto nell’uso delle armi, e la sua abilità si era ancor più affinata durante gli anni di servizio militare prestato nell’esercito di re Filippo III. Ora che era a riposo si cimentava spesso con altri cavalieri nei tornei e nelle giostre che si organizzavano a Lecce, a Gallipoli, a Nardò e a volte si recava perfino a Napoli per combattere in singolar tenzone. Per assistere alle gare accorreva sempre un gran numero di nobiluomini, di dame e anche di popolani, desiderosi di godersi uno spettacolo pacifico di destrezza, ma comunque violento.

Nel torneo, còmpito del cavaliere era quello di abbattere l’avversario e di catturarlo. Don Francesco riusciva sempre vincitore e liberava il caduto in cambio di un prestabilito sostanzioso riscatto.

Il 1627 gli abitanti di Cavallino vissero una giornata memorabile. Avevano già selciato le strade, spianato e diserbato la piazza, imbiancato di calce i prospetti delle case, insomma avevano messo a nuovo il paese. Quindi poterono vedere arrivare tutta la nobiltà di Terra d’Otranto: principi, duchi, marchesi, conti, e poi baroni, militi e valvassini, i quali, invitati, si davano convegno a Cavallino per prendere parte alle feste organizzate in occasione delle nozze del signor barone Francesco Castromediano con la bellissima e gentilissima contessina Beatrice, figlia diciottenne del potente signore don Giovanni Acquaviva d’Aragona dei Conti di Conversano e Duchi di Nardò.

Più giorni durarono i festeggiamenti: banchetti, cortei e balli, recite teatrali, spettacoli in piazza, fuochi d’artificio, solenni cerimonie religiose con l’intervento di alti prelati.

Fu un'occasione propizia, anche se fuggevole, che indusse la gente di Cavallino a non pensare momentaneamente ai consueti guai della vita.



2- Cavallino da baronia a marchesato

Dai tempi dei signori Maresgalli (1200), da quelli di Pietro de Noha (1291), a quelli di Ascanio Castromediano, il feudo di Cavallino appartenne a feudatari di bassa nobiltà, del rango cioè di liberi baroni.

Nel 1628, con privilegio del re di Spagna Filippo IV, da semplice baronia il feudo di Cavallino fu elevato a marchesato e il 16° barone, Francesco Castromediano, figlio di Ascanio e di donna Aurelia Sanseverino, diventò anche 1° marchese di Cavallino. Il titolo, insieme con le annesse prerogative nobiliari, gli fu concesso dal sovrano spagnolo per i meriti personali acquisiti da don Francesco e soprattutto per i numerosi servigi resi alla monarchia da parecchi altri membri della famiglia dei Castromediano. Sotto il marchesato di don Francesco il feudo raggiunse la sua completezza istituzionale e costituzionale, organizzativa e funzionale. Esso apparteneva al marchese il quale era, si, soggetto al sovrano con tutti i doveri e gli obblighi derivanti dal rapporto di vassallaggio, ma nella sua giurisdizione era padrone assoluto; una volta pagato il tributo annuale di esonero militare, una volta pagato, ad ogni successione, il tributo per la conferma dell’investitura feudale, una volta versate le imposte dovute al Regio Fisco, allora il marchese poteva amministrare il feudo a suo arbitrio e senza alcun controllo, né da parte di organi superiori statali né da parte di organi amministrativi locali.

Man mano i pesi fiscali dovuti dai feudatari al re venivano alleggeriti, ma nel contempo si facevano maggiormente onerosi i gravami imposti ai vassalli: i signori diventavano sempre più ricchi, i sudditi sempre più poveri.

I contadini, i pastori, gli artieri, i servi si accollavano con fatale rassegnazione tutte le imposizioni e, se talvolta accennavano alla protesta, intervenivano i sacerdoti, sottomessi alla nobiltà, per persuaderli a sopportare con santa rassegnazione le privazioni terrene, pensando alle future ricompense in paradiso.



3- La comunità cavallinese

La piccola comunità di Cavallino comprendeva tutte e tre le categorie sociali: la nobiltà (il marchese capo del casato e tutti i suoi familiari), il clero (l’arciprete, i preti e i monaci), i lavoratori. Ad ogni ceto era assegnato un compito preciso: i nobili comandavano, i sacerdoti predicavano, i vassalli lavoravano per procurare gli alimenti agli uni e agli altri e a se stessi.

Ormai Cavallino possedeva i tre centri della vita sociale al completo: il palazzo, il villaggio, la parrocchia. Il palazzo era il simbolo della potestà del signore e con la sua tozza e salda mole dominava sul vasto territorio e incombeva sulle umili abitazioni dei villani.

Nonostante tutto, il villaggio via via si ampliava. Cresceva il numero degli artieri: maniscalchi, falegnami, ciabattini, muratori, cavamonti, stagnai, tutti venuti da fuori, i quali dietro pagamento di una forte tassa di residenza ricevevano dal marchese l’autorizzazione a dimorare in paese. E costruivano le proprie abitazioni attorno al castello e attorno alla parrocchia.

Questa dava al casale l’unità spirituale e forniva alla comunità le pratiche e le funzioni religiose, riscuotendo in cambio le decime e le ottave (cioè la decima o l’ottava parte dei prodotti della terra e dell’allevamento) e incassando le tasse di stola bianca dovute per battesimi, cresime e matrimoni e le tasse di stola nera per i funerali.

Però i tributi ecclesiastici erano lievi rispetto a quelli baronali. I villani, difatti, furono sottoposti durante il viceregno ad un tale sistematico prelievo fiscale diretto e indiretto, ordinario e straordinario, che rimasero soffocati i semi di prosperità germogliati al tempo degli Aragonesi, e furono ghermiti i pur modesti risparmi accantonati così lentamente e con tanti stenti dai sudditi.



4- Solo l’aria non era tassata!

I pesi fiscali crescevano di anno in anno così come aumentava la cupidigia dei viceré e dei marchesi.

Si è già detto dei vari tributi, balzelli e imposte che gravavano su ogni merce. Tutte, ma proprio tutte le cose trasportate, sia prodotti dell’agricoltura e della pastorizia, che oggetti dell’artigianato, erano soggetti a dazio: castagne, formaggio e ricotta, noci, carrube e fichi secchi, bestie da macello, cera e miele, cotone e lana, calce e pietre squadrate, terraglie e canestri, mobili, utensili da lavoro e da cucina, persino la cenere per il bucato. Addirittura si pagava un pistacchio “pe omne sacco de foglie selvagie che fossero portate in collo per venderese o da femina o da masculo”.

Ma fra tutte le imposte la più odiosa era la gabella del sale. Poiché i sudditi, per consumare poco sale (che costava molto caro) mangiavano insipido, fu stabilito che ogni famiglia doveva acquistare in una sola volta il sale occorrente per un anno e in quantità calcolata in rapporto al numero dei familiari. Il peggio era che la quantità in proporzione cresceva di tempo in tempo a seconda dell’avidità del monopolio regio.

La gran parte dei tributi andava a finire nelle casse del signor marchese, il quale trascorreva le giornate a Lecce, al circolo dei nobili oziosi e sfaccendati. I mercanti veneziani, fiorentini, ebrei, che spesso capitavano a Lecce per affari, si meravigliavano nel vederli trascorrere le ore in ozio, a giocare, a chiacchierare, a sfilare in carrozza per il corso della città con le mogli sfarzosamente intolettate.

Inoltre il marchese riceveva altri redditi, che aumentavano le sue entrate. Infatti, ci informa G. Cino, la città di Lecce annualmente pagava “all’Università di Caballino la somma di ducati 157,90”, quale indennizzo e compenso “per la bonatenenza” e la salvaguardia delle proprietà, che i cittadini leccesi possedevano nell’ambito del territorio cavallinese.



5- Notevole attività edilizia

Verso la metà del 1500 furono ripresi i lavori di ampliamento del palazzo della famiglia Castromediano. A più riprese e fino alla metà del 1600 il castello continuò ad essere ampliato, rifatto, restaurato. Contemporaneamente, a difesa del paese dagli assalti nemici e dalle infezioni epidemiche, vennero innalzate le mura che racchiudevano l’abitato di Cavallino.

I coniugi don Francesco e donna Beatrice fecero edificare la chiesa a tre navate e l’attiguo convento, che furono affidati ai frati domenicani; la baronessa volle in piazza il pozzo pubblico sormontato su quattro colonnine dalla statua in pietra di San Domenico (1636); inoltre, dal 1630 al 1637 fu completato il palazzo marchesale e sontuosamente arredato.

In quegli anni cominciò pure la costruzione della nuova chiesa parrocchiale, più grande ma meno bella della precedente e fu completata circa un secolo dopo, nel 1725.

Cavallino ebbe un ospedale e una farmacia. Certo non è da immaginare quell’ospedale come lo intendiamo noi oggi; più che un luogo di cura era un ricovero dove gli ammalati privi di assistenza trovavano un po’ di cibo caldo, qualche empirica cura, ma specialmente conforto morale e calore umano.

La farmacia (spezeria) disponeva di erbe medicinali per i decotti, di unguento per i foruncoli, la scabbia e la risipola, di pomate per le ferite e i dolori reumatici, di olio di ricino e sali purganti; non mancavano, tenute in vasetti, le sanguisughe per agevolare i salassi.



6- ‘Dio gli perdoni!”

Mai nell’Italia meridionale si era praticato un regime di sfruttamento tanto intollerabile, e poiché i nobili e il clero per privilegio sovrano (essi assicuravano per volontà di Dio) erano esentati da ogni specie di tassazione, le imposte e le tasse e i dazi e i pedaggi gravavano sulle classi povere. Mai si era assistito ad un divario talmente eccessivo tra ricchezza sfrenata ed estrema indigenza.

Un chiaro esempio: mentre la gabella del sale nel 1606 ammontava a 8 carlini a tomolo, nel 1637 saliva a 12 e nel 1640 arrivava a 22 carlini, la paga giornaliera di un operaio passava da 1 carlino e mezzo a 2 carlini e 3 grana, e infine a 3 carlini con la ritenuta di 3 grana per il fisco.

Nel 1647 a Napoli, a causa della fame, scoppiò la rivolta dei pezzenti, capeggiata dal pescivendolo Tommaso Aniello, soprannominato Masaniello. Da Napoli la ribellione si diffuse fra tutte le popolazioni del Reame oppresse dalle carestie e dai balzelli fiscali.

I Salentini affamati colsero l’occasione opportuna per accoppiare alla sommossa per la fame l’insurrezione contro i signori baroni nella speranza di affrancarsi dalla servitù.

I vassalli cavallinesi tornarono ad invocare con maggiore determinazione e ardore l’inclusione del territorio feudale nel demanio dello Stato.

Non era raro udire per i campi intonare lo stornello:


Fiur de limune,

tenia n’addru e lu fici capune;

fora barune, fora barune!


Poi si misero a tumultuare incendiando i posti daziari e decidendo compatti di sospendere il pagamento dei tributi baronali maggiormente esosi.

Fra tutti i baroni il marchese Francesco Castrmediano si distinse per la ferocia nella repressione e per la brutalità nella punizione dei ribelli. Assoldò venticinque cavalleggeri e numerosi armigeri forestieri e prima ridusse all’obbedienza i sudditi cavallinesi, compiendo crudeli vendette e ricorrendo persino alla tortura, e poi corse a dare man forte agli altri feudatari amici che si trovavano in difficoltà nei confronti dei rivoltosi.

Se un suo discendente, l’ultimo dei Castromediano, il mite Sigismondo, parlando di lui disse: “Dio gli perdoni”, vuol dire che in quella circostanza il marchese don Francesco si macchiò di peccati veramente grossi.



7- Il massacro dei Neretini

Citiamo solo un episodio, che dà la misura della ferocia con cui si comportarono in quella occasione i prepotenti, i baroni, spaventati e inferociti dal pericolo di perdere beni, possedimenti e prestigio così accanitamente perseguiti.

Anche la città di Nardò insorse ribellandosi al suo duca Gerolamo Acquaviva, conte anche di Conversano, soprannominato “il Guercio di Puglia”. Molti baroni salentini accorsero in suo aiuto perché, difendendo i suoi soprusi, sapevano di difendere i propri.

G. B. Biscozzo nei suoi “Notamenti” scrisse: “A di 3 agosto 1647, ad ore 9, comparse un esercito, mezzo miglio largo della città, portato dal Signor Conte di Conversano con il Duca di San Donato, il Marchese di Cavallino.., e il barone di Lizzanello, ciascheduno con la sua gente”.

Per più giorni le schiere mercenarie dei feudatari tentarono invano di penetrare nella città, accanitamente difesa dalla popolazione. Incendiarono i fienili e le messi sulle aie, uccisero il bestiame, impiccarono agli alberi parecchi contadini sorpresi nelle case coloniche.

Non riuscendo a riconquistare Nardò con la forza delle armi, Gerolamo finse di accettare le condizioni avanzate dai Neretini. Ma quando i feudatari entrarono in Nardò, a tradimento pugnalarono il barone Scipione Sambiasi, vecchio di novant’anni, guida dei rivoltosi; fecero fucilare sette sacerdoti, canonici della cattedrale, che si erano schierati con il popolo, poi mozzarono loro le teste e le appesero davanti al municipio; massacrarono decine di cittadini dopo averli crudelmente torturati davanti agli occhi delle madri e delle mogli; rasero al suolo parecchie case e vi sparsero del sale, perché non vi spuntasse neppure un filo d’erba.



8- Le morti superano le nascite

Nel 1656 la grande peste si diffuse in Puglia e fece strage di abitanti. I Cavallinesi tentarono di fermare la mortale infezione portando in processione le statue dei Santi, facendo penitenza, facendo voti alla Madonna del Monte e a Sant’Oronzo. Invocarono anche il nuovo protettore San Domenico di Guzman. Questo rimedio peggiorò la situazione perché l’assembramento della gente nella chiesa favorì i contatti e la diffusione del contagio. Si chiusero le porte del paese quando il morbo era già penetrato nel casale; fu ordinato di ungersi il corpo con succo di aglio e cipolla, di bere acqua mescolata con aceto, di non gettare oggetti, panni e immondizie in strada, di bruciare le masserizie degli appestati; furono ammazzati tutti i cani e i gatti e crebbe l’invasione dei topi; fu innalzata una forca in piazza come ammonimento e spavento a chi non rispettasse le disposizioni e le ordinanze delle autorità civili e sanitarie.

Tutti erano ossessionati dal pensiero della morte e tormentati dalla paura misteriosa dell’aldilà; tutti erano persuasi che le epidemie ricorrenti, come le carestie e le disgrazie, fossero mandate da Dio, incollerito per i peccati degli uomini. Occorreva, perciò, pentirsi e fare penitenza - predicavano i religiosi -, compiere opere buone a favore del convento e della parrocchia, per espiare le colpe e suscitare la misericordia del Signore; da qui le processioni dei flagellanti che si percuotevano a vicenda a dorso nudo con strisce di cuoio, da qui i làsciti e le generose donazioni alla Chiesa come suffragio, allo scopo di ottenere da Dio la remissione della pena temporale inflitta in sconto dei peccati.

I morti furono numerosi, tant’è vero che, mentre il numero delle famiglie nel 1648 era salito a 171 con una popolazione di 855 persone, nel censimento del 1668 risultarono 135 fuochi con 675 abitanti. Senz’altro colpa delle ricorrenti epidemie; ma queste potevano diffondersi con tanta facilità e rapidità perché i bacilli trovavano organismi umani deboli e denutriti a causa del faticosissimo lavoro e della cronica penuria di alimentazione.



9- Alleanza tra viceré e barone

Superato il grave pericolo della ribellione delle plebi affamate, ai signori feudatari non rimase altro partito che allearsi con il viceré e unire le forze, gli uni per rinsaldare il possesso del feudo e l’altro per restaurare il dominio del re di Spagna scosso dalla rivolta della fame.

Concludere il patto di alleanza tra i due poteri antagonisti fu cosa agevole dal momento che era comune in loro la necessità di conservare i beni, le fortune e le prerogative antiche, e comune era in loro l’odio per i “lazzaroni”, per i “cafoni” che essi avevano tenuto sempre sotto i piedi.

Durante il marchesato di don Francesco Castromediano il fiscalismo raggiunse il massimo dell’intollerabilità, sia per punizione dei ribelli e sia per le richieste ossessive del re Filippo IV, che chiedeva soldi e soldi, occorrenti per proseguire le guerre in varie regioni d’Europa. Gli stessi esattori erano esasperati nel constatare che, per soddisfare le pretese del viceré e del marchese, erano costretti a sottrarre ai coloni l’intero prodotto delle loro annuali fatiche.

Quanto più crescevano le ricchezze del marchese, tanto più i vassalli si immiserivano. Ad ogni fine raccolto davanti al portone del castello era una ressa di carri agricoli carichi, secondo le stagioni, di canestre di uva da scaricare nel palmento, di sacchi di grano, orzo, granturco, legumi da ammassare nei magazzini, di sacchi di olive da versare nel frantoio del signor marchese.

I contadini avanzavano a turno nel grande atrio e si presentavano davanti alla bascula per pesare le derrate; e dovevano stare molto attenti per non essere ingannati sul peso dagli inservienti, i quali, sventurati anche loro, parteggiavano per il padrone anziché per i miseri villani.




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